Nel marzo 1930 il p. Francis Aupiais
sbarca a Natitingou in paese "somba", nel nord del Dahomey
(il Benin attuale) con l'operatore Frédéric Gadmer.
E' la prima tappa di una missione di geografia umana chiamata
"Archivi del pianeta" voluta da padre Aupias e dal suo
amico Albert Kahn.
Padre Aupias è infatti da 23 anni
nel sud del Dahomey, a Portonovo. Questa missione che sta per
intraprendere a come scopo di filmare con una "cinepresa
etnografica" tutti gli aspetti della vita delle popolazioni
dahomeane, e più particolarmente le cerimonie religiose.
Quando il p. Aupias interroga l'amministrare
dell'Atakora sui riti di queste società d'agricoltori,
si sente rispondere che esse non hanno nessuna religione. Questo
non impedisce al padre di condurre la sua inchiesta. Aiutato da
Bagri, capo villaggio di Béréssengou, Fréderic
potrà filmare diverse danze femminili, il rito d'imposizione
del nome, la preghiera davanti all'altare degli antenati.
L'episodio illustra le intuizioni, il
tipo di approccio e il metodo che p. Aupiais seguiva. Egli intendeva
dimostrare che le popolazioni indigene possedevano eccellenti
qualità morali e religiose prima della loro cristianizzazione.
P. Aupiais ha appena 26 anni quando sbarca
bel nord del Golfo di Guinea nel 1903. Dall'inizio prende le distanze
dalla mentalità coloniale che non vedeva negli autoctoni
che dei primitivi da civilizzare o dei pagani da convertire.
Tutti i popoli sono capaci di ricevere il Vangelo, anche i temibili
dahomeani che, ancora poco tempo prima, facevano sacrifici umani.
A Portonovo diventa amico coi sacerdoti
della religione tradizionale, s'immerge nelle cerimonie vodu,
allora proibite agli stranieri, raccoglie senza tregua storie,
racconti, proverbi, che pubblicherà nel 1925 in una rivista
da lui creata assieme ad alcuni collaboratori dahomeani.
Oltre alla "riabilitazione"
delle società dahomeane, la rivista "Renaissance Africaine"
aveva anche come scopo di mettere un freno alla deculturazione
degli Africani. Per questo nella scuola della missione, di cui
è superiore dal 1919, alcuni corsi sono fatti nella lingua
fon e in goun, le lingue del sud, ci sono dei corsi
sulla storia del Dahomé, ed esiste un laboratorio di scultura,
dal quale escono, ad esempio le famose maschere guelede.
Rientrato in Francia nel 1926 p. Aupiais
parte con una missione precisa" alla conquista" di tutte
le grandi città. Ha con sé una trentina di casse
che contengono le opere più belle dell'arte dahomeana.
Il successo del padre è senza misura. Di fatto è
il successo dell'Africa, della sua arte, della sua cultura, delle
sue civilizzazioni. Il p. Aupiais è l'ambasciatore degli
africani e si adoperò, durante tutta la sua vita, per riabilitare
"l'uomo nero".
Questa messe di "immagini etnologiche"
appassionerà gli ambienti scientifici dell'epoca ai quali
il padre inviava questo messaggio:
"Voglio far conoscere sotto la loro
vera luce, al pubblico europeo, le popolazioni del golfo di Guinea,
il cui livello intellettuale e morale mi hanno profondamente colpito,
anche se queste popolazioni sono considerate con infima stima
dai Bianchi in generale perché incolte e crudeli".
Il padre dimostrava che dietro a certe
apparenze strane, a volta sgradevoli o, dietro a certi eccessi,
esisteva nell'animo africano, una civilizzazione, una spiritualità,
una moralità, sulle quali si poteva costruire il cristianesimo.
Non smetteva di sottolineare che c'erano degli elementi validi,
solidi, già presenti, partendo dai quali il cristianesimo
poteva nascere, crescere, svilupparsi. Affermava che la religione
dei popoli non cristiani entra nel piano della Provvidenza divina:
"E' nei loro valori d'amore, nei loro valori positivi che
si trovano i "semi del Verbo".
P.Aupiais fu non solo missionario in
Africa, ma anche missionario dell'Africa in Europa. E lo fu con
una tale tenacità, tatto e intuizione, che gli valsero
la tenerezza dell'Africa e la riconoscenza di tutti, anche se
il suo amore per l'Africa fu accompagnato da sofferenze e incomprensioni.
Della missione del 1930 è in corso
a Parigi una esposizione con illustrazioni tratti da questi film
e con oggetti provenienti dal museo delle Missioni Africane di
Lione. Le opere della mostra sono raccolte in un catalogo che contiene
168 illustrazioni, autocromi e fotogrammi tratti dalle riprese
di Frédèric Gadmer.