MISSIONI DEL DAOMEI.

---------------------

R e l a z i o n e

intorno

Lo Stabilimento delle missioni nel Vicariato Apostolico del Daomei,

Dal signor abate Borghero spedita al signor abate Agostino Planque, Superiore delle Missioni africane in Lione.

TERZA PARTE

NOZIONI PIU PARTICOLARI AL REGNO DEL DAOMEI

Le ragioni, che ci fecero preferire il Daomei e la città di Vidah, per istabilirvi il primo centro della missione, vi sono note; del pari che le circostanze, le quali vi ci condussero. Non ignorate pure, in tutte le particolarità sue, la storia della nostra missione; ma non vi sarà, cred'io, discaro, ch'io, in breve sunto, ve ne rinfreschi qui la memoria.

Storia della Missione

Il governo francese volle trasportarci in una sua nave, e da un suo rappresentante farci, il giorno dopo il nostro arrivo, cioé il 19 aprile 1861, presentare alle autorità daomeiesi. Ogni cosa successe secondo il desiderio nostro. La nave da guerra, che portati ci aveva, e la protezione francese sotto cui eravamo, e la novità del fatto, ed il rispetto che i Bianchi ci dimostravano; tutto insomma concorse a colpire le menti de' paesani, e ad imprimervi alto concetto di noi. Anzi v'ebbe di più: disposizioni della Provvidenza ci condussero quasi per mano. Alcuni giorni prima dell'arrivo nostro, certi avvenimenti bizzarri, i quali non si sarebbero potuti immaginare giammai, determinarono l'evacuazione del Forte portoghese per parte di coloro, che l'avevano fino allora occupato. Il detto Forte venne dal governo portoghese abbandonato nel 1825, e poscia, in vari tempi, occupato da alcuno particolare; e si trovò voto del tutto tre giorni dopo il nostro arrivo. Da trentasei anni in qua facevasi stima, che appartenesse, per diritto di patronato, al re del Daomei, e con sommo giubilo de' cristiani, fu dal governo del paese a noi conceduto, col consenso di quelli che, nell'opinione pubblica, rappresentavano ancora i diritti del Portogallo. Non erano, per verità, altro che rovine; ma vedemmo poscia, essere il solo luogo che da noi si poteva abitare per acquistarci qualche riputazione pubblica in qualità di missionarj. Secondo tradizioni antichissime, è questo il luogo, ove Dio possede il tempio suo e riceve convenevole culto: è la sede del cristianesimo nel Daomei, il luogo in cui i paesani vengono talvolta ad onorare il Creatore, ed a cui il re invia il suo rappresentante, perché renda omaggio al supremo Iddio: né si saprebbe, secondo la credenza comune, trovare un altro luogo, ove questi omaggi potessero essere offerti.

Se noi fossimo alloggiati altrove, saremmo stati reputati semplici particolari ed isolati come in deserto, quantunque in mezzo a popolosa città; mentre nel Forte portoghese ci siamo trovati, senza saputa nostra, posti fra i grandi personaggi del regno: almeno nell'immaginazione del popolo, che ci crede intimi amici del re, poiché abitiamo a casa sua e ci sono resi i medesimi onori che ai principi del paese. Tutti questi casi ebbero per effetto di salvarci dal disprezzo, di che, senza ciò, saremmo stati oggetto.

Inizi: diffidenza e timore

Nel principio, ad onta di quanto concorreva in nostro favore, ci riguardavano con diffidenza e stavano in non so qual timore per noi. Ciascuno sforzavasi d'indovinare, ciò che sarebbe di noi; imperocché in un paese, ove ogni cosa dipende dal re, non si saprebbe formare un concetto, un giudizio, prima che la parola del re abbia pronunciato la sua sentenza. Noi non eravamo mercanti: in nulla dinotavalo il nostro aspetto: il re sanzionerebbe egli la nostra stabile dimora? Questa dimanda usciva della bocca di tutti. Era ben vero, che, fin da' primi giorni, noi, a motivo di certi regali che avevamo avuto cura d'inviare a sua Maestà, eravamo stati proclamati amici del re; ma ciò era provvisorio: non potevamo andare sicuri di una stabile condizione, se non quando recati ci saremmo personalmente alla metropoli per conoscere il re, essere da lui conosciuti ed intendere dalla sua bocca la volontà sua riguardo a noi. Trascorsero otto mesi, prima che potessimo intraprendere un tale viaggio. Frattanto ci fu concesso di ristaurare la nostra stanza e la chiesa: non altro. Nella mia visita alla metropoli, il re spiegò tutta la sua possanza e fece pompa di lusso. Si parla ancora dai paesani, eziandio i più lontani da Abomé, di quello ricevimento. Aderì a tutte le nostre dimande, ci confermò la possessione del Forte portoghese, ci dié piena libertà nelle cose religiose verso i cristiani, ci assicurò della sua protezione, e ci espresse più volte la soddisfazione sua circa il nostro arrivo negli stati di lui. Non deesi per altro credere, che tutte queste dimostrazioni e queste sicuranze ci pongano in salvo dalle miserie, che non mancano mai d'essere destate contro un forestiere qualsiasi. Perché noi non facciamo traffico alcuno, il re volle esentarne da ogni tributo; ma un paese, il quale non ammette i forestieri se non per l'utile che il commercio ne trae, debbe trovar disagradevole, che noi non porgiamo ai capi quegli utili che offrono i mercanti. A ben considerare, tutte le spese che fa la missione tornano ad utile del paese; ma i capi non riguardano le cose da questo lato, ed hanno per nulla tutto ciò che direttamente non entra nel loro forziere; e però cercano tutti i modi d'averne un compenso.

La casa s'incendia: multa!

A voi debb'essere sembrato strano assai, che, allorché il fulmine incendiò la nostra casa, le autorità, lungi dal farsi in ajuto nostro, siansi mosse a condannarci a forti multe, ad imporci atti contrari alla nostra coscienza, e, dietro il nostro rifiuto di adempirli, a metterci in prigione. Sono cose consuete in questo paese: volevano sottrarci del denaro; ciò sapevamo, e, se alla multa, ond'eravamo condannati, non avessero dato forma idolatrica, noi l'avremmo pagata, senza aspettare la forza aperta. Ciò non ostante, in questo caso pure, fummo trattati con insueto riguardo, posciaché ci permisero di rifabbricare la casa, e si astennero di saccheggiarla: il che sarebbe per certo avvenuto, se tale disgrazia avesse tocco un paesano, fosse pure stato il principale personaggio del regno. Tutte le testimonianze di stima e di rispetto, di che ci colmano, del pari che i soprusi e le angherie che ci fanno patire, sono altrettanti mezzi di cavarne denaro. In altri luoghi sono meno garbati, e ci spogliano senza una cerimonia al mondo: anzi è un gran che, se ci lasciano in vita. Qua i paesani stessi sono più esposti di noi ad essere spogliati dei loro beni da quelli, che credono avervi diritto in ragione della loro potenza. Nessuno, per grande che sia, può salvarsi dagli usi consueti; però il Gevogan, il quale è, indubitatamente, uno de' primi personaggi dopo il re, ed il quale da trent'anni governa Vidah in nome del monarca; pochi giorni dopo che ci ebbe condannato alla multa, che sapete, per cagion dell'incendio, fu chiamato dal re, perché nella metropoli assistesse alle solennità consuete; ma essendo egli infermiccio quando tale invito gli giunse fu costretto d'indugiare alcuni giorni a mettersi in cammino. Questo ritardo fu cagione, che lui e le genti del suo seguito, che erano tutti coloro che assistito avevano alla nostra condanna, furono messi in arresto; e quell'alto personaggio venne condannato ad un'amenda, che non poté, se non dopo molto tempo, pagare, mediante estorsioni d'ogni maniera sopra i cittadini governati da esso. Indi a poco, il Meu, primo personaggio del regno dopo il re, e quel medesimo che aveva condannato il Gevogan, fu, alla sua volta, posto in accusa dagli altri capi, e costretto a pagare una forte multa: noi non ne sappiamo il perché.

Quando fui di ritorno da Abomé, tosto che le cose più essenziali del nostro stabilimento furono regolarmente approvate dal re, potemmo con sicurtà dar mano all'opera; e da questo punto soltanto dobbiamo contare il principio della missione nostra. Eravamo quattro sacerdoti, e ci dividemmo il lavoro nel modo che reputammo più acconcio a produrre buoni risultamenti.

Il Cristianesimo è ammesso, ma…

Voi avete, nel sunto generale, veduto, che il cristianesimo è ammesso nel Daomei; ma al cospetto de' paesani, egli non fa altro che rappresentare il culto del Dio supremo, di che essi non si danno molto pensiero. Nell'integrità sua, in quanto riconosce la legge di Gesù Cristo, non è permesso se non ai forestieri d'origine ed a coloro, che a questi sono soggetti. Il fettiscismo è illuminato quanto basti a comprendere, che ove si ammettesse il conoscimento di Gesù Cristo e si permettesse il suo culto, i cristiani verrebbero a capo di occupare ogni cosa. Da un'altra parte sarebbe impossibile di toglier via qualunque specie di relazione col Dio supremo, di che un certo conoscimento è generalmente sparso. Fu dunque un mezzo termine quello che adoperarono col permettere una specie di deismo. Mi piace di trascrivervi qui il passo d'una lettera, che ho ricevuto, alcuni giorni fa, da un giovine uscito dalla famiglia reale del Daomei. Dopo essersi congratulato meco di ciò che fu stampato negli Annali della Propagazione della Fede intorno il suo paese, parlando dei Daomeiesi si esprime così: Non vi sembra egli, essere un popolo sufficientemente ragionevole verso gli stranieri... che vengono nel nostro paese? Io porto opinione, ch'essi ascolteranno le parole di Nostro Signor Gesù Cristo meglio che altri non farebbero. Questi popoli hanno già conosciuto il vero Dio, che ha creato il mondo, e chiamanlo Se in loro lingua: solo non conoscono, esservi un Uomo-Dio venuto sulla terra per liberarci dal peccato originale e da altri peccati, che noi commessi abbiamo. - Ma che è mai la conoscenza di Dio senza Gesù Cristo? Fu sempre ammessa, e il mondo pur se ne rimase nell'idolatria; e sempre è il caso di ripetere con S. Paolo: Avendo conosciuto Dio, non l'hanno, come tale, glorificato.

Udite in che consista l'omaggio pubblico, che il re fa rendere al vero Dio. Poco avanti la festa di S. Giovanni Battista, patrono della nostra chiesa, noi ne diamo avviso al Gevogan; e questi invia, la sera delli 23 giugno, una piccola quantità d'olio di palma per la chiesa in nome del re, che l'offre a Dio. Per quanto piccola cosa sia, è pur sempre un omaggio. Il re manda ancora, una volta o due l'anno, a salutarci ed a chiederci di pregare per lui. Quello, che forse è più significativo, si è la condotta del Gevogan, e quando parte da Vidah per recarsi ad Abomé, e quando se ne ritorna: è costretto a visitare almeno i tre Forti, e, se il tempo glielo concede, alcuno de' principali negozianti. Queste visite sono di pura civiltà; ma, giunto a casa nostra, c'è qualche cosa di più: noi lo riceviamo alla gran porta esteriore, ed ivi hanno luogo i primi complimenti. Quando l'ntroduciamo nel Forte, ci chiede il permesso d'entrar nella chiesa e di pregare pel re, per lui e per tutto il popolo. Il precediamo, ed egli ci segue coi principali capi. I soldati ed i sonatori, che l'accompagnano, rimangono fuori, in silenzio. Mentre noi recitiamo, a pié dell'altar maggiore, le orazioni per la conversione e la conservazione del re e de' sudditi suoi, il Gevogan ed il suo corteo si tengono ginocchioni in mezzo alla chiesa e pregano anch'essi all'usanza loro. Da prima, il Gevogan avrebbe voluto, che noi gli presentassimo l'acqua santa nell'entrare in chiesa, perché egli sa, tale essere l'uso dei cristiani; ma noi ci scusammo col dirgli, che ciò da noi non potevasi fare verso i pagani. Quindi in poi va, di suo proprio moto, a prenderla egli stesso nella pila, che è presso la porta, e se ne asperge il volto. Entrare nel Forte con comitiva di soldati armati, entrare in chiesa, nel modo testé accennato; è il più grande onore che i paesani possano ricevere da noi; però il solo Gevogan può aspirarvi nella sua qualità di rappresentante del re. Gli altri capi, allorché debbono venire a salutarci coi rispettivi loro corpi d'esercito, non entrano: presentansi davanti al Forte, di là dal fosso; e noi li riceviamo dalle nostre finestre, e quinci scambiamo con essi alcun segno di complimento: questa è l'etichetta indispensabile. Se noi discendessimo sino alla porta, faremmo loro un onore, che ad essi non è dovuto, secondo gli usi del paese.

Resistenze dei sacerdoti locali

Tali sono le relazioni del cristianesimo coi paesani idolatri. Non vi date a credere, che tutte queste dimostrazioni generino conseguenze pratiche: tutte le sette del fettiscismo sono ammesse ad esercitare l'influenza loro sopra il paese; ma il cristianesimo è accuratamente posto in disparte. I sacerdoti degl'idoli s'accorgono benissimo, che ogni cosa perderebbero se noi procedessimo innanzi, se la nostra parola, penetrando nei cuori, venisse a regolare gli atti della vita sopra la morale cristiana. Si sa, che noi riproviamo le laide superstizioni, i sacrifici umani ed il commercio degli schiavi: tre cose sì pienamente in vigore nel Daomei. Ci lasciano per altro liberi nella pratica della nostra religione; ma il giorno, in cui il cristianesimo sarà divenuto grande, sì che abbia la sua parte di pubblica influenza, verrà necessariamente considerato come nemico da questo esercito di sacerdoti degl'idoli.

Nel volgere uno sguardo alle difficoltà, che l'Evangelio incontra nell'attuale stato de' nostri popoli, sembrerebbe, che ogni cosa tenda a rispingerlo. Parlo de' popoli sotto il giogo del fettiscismo, quale il troviamo ordinato sulle coste di Guinea, e, più specialmente ancora, nei nostri limiti. Io non pretendo generalizzare; ma dico, che dovunque si troveranno le stesse circostanze, i risultamenti saranno presso a poco i medesimi. Non intendo né anche cercar le cagioni d'uno stato sì miserabile: tale ricerca ci condurrebbe troppo lungi dal proposito nostro. Mi ristringo principalmente all'esponimento di ciò che i nostri occhi hanno veduto, di ciò che noi abbiamo sperimentato, e troviamo conforme alla testimonianza di quelli che furono e sono tuttavia nel medesimo caso nostro. Nei popoli, pure idolatri, che hanno conservato qualche istruzione, che sanno coltivare le conoscenze razionali e naturali, il cristianesimo trova, arrivando, una via spianata, un campo preparato a ricevere la sementa evangelica. La lingua porge mezzi sufficienti a dichiarare idee morali; i principii filosofici hanno creato un linguaggio, che rappresenta un poco più che i nomi delle cose di prima necessità, e che ha i verbi atti ad indicare le operazioni spirituali; si conoscono le ragioni della credenza legittima; e quando la Fede comparisce col suo corteggio di prove, non ci vuole che un poco di buona volontà ad ammetterla. Par tal ragione gli Apostoli non avevano che a rettificare le idee dei filosofi pagani: il rimanente procedeva da sè. Anzi vediamo, che S. Paolo, nell'Areopago, poté valersi degli autori greci per confermare la sua dottrina. Anche a' dì nostri, nell'ultimo Oriente, il missionario può prendere gli uomini nello stato in cui sono, ragionare con essi, servirsi di quello che sanno per condurli al conoscimento della verità. Qua tutti questi mezzi ci mancano, o, a meglio dire, dovengono affatto inutili sotto il peso delle abitudini del fettiscismo e della servilità: non perchè le genti siano del tutto sprovviste di senno bastevole ad ammetterela verità; ma perché non si sono mai condotti conforme il ragionamento. Sono così avvezzi a seguire, qual unica regola, l'inclinazione loro alle cose sensibili, che a volerli guidare secondo la ragione è come dare un pugno in cielo. Nella condotta ordinaria, sia una cosa giusta ovvero ingiusta, sia prudente o no, non è motivo perché si faccia o si cessi: l'uomo qua è passivo tanto, che preferirà sempre seguitare l'impulso di quelli che hanno influenza sopra di lui, ovvero ciò che gl'ispira l'istinto. Questo difetto d'attività razionale trae ad altro inconveniente: tu parli con uomo, che professa alcuna stima di te, e che ti teme un poco: disposizioni in cui generalmente sono i Neri verso i Bianchi: puoi dirgli tutto quello che vorrai: egli approverà tutto, dirà di sì ad ogni cosa, avrà ogni cosa che gli dirai per buona e giusta: a meno che non sia leso ne' suoi interessi, non gli cadrà mai in pensiero di contradirti; tu avrai sempre ragione. Piglia il primo che ti capita innanzi, digli tutto ciò che a te piace di Dio, dei misteri della religione, dei doveri verso Dio e verso il prossimo: sempre ti risponderà, che ottimamente. Domandagli se crede ciò che ha testé udito, e ti dirà di sì. Anzi tutti hanno per costume di rispondere sì a tutte le dimande che loro farai, purché non abbiano nulla da perderci. Tutto ciò per altro non significa, ch'essi ammettano una cosa: bensì che non si pigliano cura di contraddire, o di esaminare il vero od il falso della tua proposta. Quindi è, che non facendo contrasto alcuno, non possono far rifulgere lume dal confregamento delle idee; e se ne rimangono nelle tenebre loro. Si noti pure, che quest'inerzia è altresì la cagione, per la quale sono si di leggieri ridotti in ischiavitù, o dominati dispoticamente da coloro fra essi, i quali si sentono un po' più di energia e sono a capo della religione del governo.

Lasciate che i fanciulli…

In mezzo a tante difficoltà è agevole immaginare, che, a meno, che non s'abbia lo spirito di S. Francesco Saverio, non si possa produrre alcun frutto di bene fra la gente adulta, già troppo indurita nelle male abitudini. Ma se noi siamo incapaci di scuotere le anime intorpidite, siccome sapeva fare quel grande apostolo, ci è almeno possibile imitarlo nel metodo, di che con tanto utile si serviva, di rivolgerci cioé ai fanciulli. E' la sola via aperta al missionario; e noi cercheremo seguirla il meglio che per noi si potrà.

L'uomo, benché generato nell'iniquità, non è però cattivo sì, che rimanga insensibile alla verità, massimamente se gli giunga all'anima per mezzo della carità e della dolcezza evangelica; e perché gli sconcerti che sopraggiungono sotto l'impero di dottrine assurde, d'esempi perversi e di pessime abitudini, chiudono lo spirito alla verità, ed il cuore al bene; giova impadronirsi dell'uomo prima che sia caduto sotto quelle tristi influenze. I risultamenti, che altri missionari ottennero, e quelli che per questo mezzo cominciamo noi medesimi a conseguire, dimostrano chiaramente, che questa natura affricana, sì barbara e sì sregolata, può divenir mansueta e maravigliosamente sottomessa alla legge di Dio. Noi vediamo cogli occhi nostri che se il Nero è disposto a lasciarsi mettere, corpo ed anima, in ischiavitù, sotto il giogo de' capi e de' sacerdoti suoi, è in pari modo prontissimo a mettersi sotto il giogo della Fede, quand'egli abbia i mezzi di scuotere quello e di liberamente vivere sotto di questo.

Noi vediamo per esperienza ogni dì, che il fanciullo, il quale riceva l'istruzion religiosa, ne approfitta mirabilmente: egli si piega di leggieri a quanto gli viene indicato; e la parola del missionario è per lui un oracolo. La difficoltà dunque non ista nel far accogliere ad un giovinetto principj religiosi, bensì nell'offrirgli i mezzi di ricevere l'istruzione religiosa. In Europa stessa, ove il cristianesimo vivifica tutto e piglia l'uomo fin dalla nascita sua, molti fanciulli perderebbero il bene dell'istruzione se dai parenti non fossero osservati, ed indotti a seguire lo studio, o religioso o scientifico. E' noto altresì, che più pii diventano quelli, i quali hanno ricevuto i primi germi della Fede sulle ginocchia della madre, e la prima educazione sotto gli occhi del padre loro. Il fanciullo ha bisogno d'essere dall'autorità de' parenti protetto contro l'inesperienza e la naturale leggierezza sua; e tale autorità, con tutti i beni che ne derivano, manca quasi del tutto in questi paesi.

Abbiamo più avanti veduto, che il padre, se non è conosciuto, non si occupa affatto del figlio suo: n'è interamente incaricata la madre; se non che, la disgrazia maggiore in questi luoghi è, che le madri sono quasi sempre pagane, schiave o serventi. Nessuno ignora, qual sia la condizione della donna fuori del cristianesimo; però, senz'altra spiegazione, s'indovinano le triste conseguenze di sì miserabile stato. Aggiungi, per Vidah, un caso particolarmente infelice; ed è, che i tre quarti de' fanciulli, i quali sono discesi dagli antichi Portoghesi venuti dal Brasile, ed i quali avrebbero avuto un po' più di subordinamento, hanno perduto i padri loro. Ci rimane, è vero, una buona tradizione dell'antica pietà portoghese nel dovere imposto al patrino di farsi in ajuto del fanciullo, divenuto orfano; ma questo dovere si limita al temporale; perché, come i patrini adempirebbero essi i doveri spirituali, se nessuno gli ha ad essi insegnati?

Conveniva però cercar qualche modo d'indurre i parenti a mandare i figli alle nostre istruzioni. A tal fine fondammo una scuola per tutti quelli che volessero profittarne. Ad essere ammessi, basta presentarsi. Abbiamo adottato la lingua portoghese, siccome la più in uso nel paese e quella che porge maggiore utilità. Se noi ne avessimo scelta un'altra qualunque, oltre che avremmo fatto nascere il malcontento e la gelosia ne' Portoghesi che rimangono, non avremmo avuto alla nostra scuola se non pochissimi discepoli, e per breve tempo. Un altro prezioso vantaggio era, di dare un'idea, più facile a concepirsi, della cattolicità della religione nostra; perché continuavamo ad insegnare nella medesima lingua, in cui i Portoghesi ed i liberati del Brasile avevano imparato le orazioni e la dottrina; e noi eravamo ben conosciuti per gente né del Portogallo né del Brasile. Quindi grande vantaggio abbiamo in confronto de' ministri protestanti, i quali insegnano la dottrina loro in inglese, confermando così i pregiudizi de' paesani, i quali credono, che ciascun popolo abbia la sua religione speciale. Ma nel vedere alla nostra chiesa genti che parlano, gli uni portoghese, gli altri francese, nel vedere in somma l'unità della religione in nazioni così diverse; e sapersi, che noi stessi missionarj, in numero soltanto di sei, siamo di tre varie nazioni, si può facilmente trarne un'idea della Chiesa cattolica.

L'apertura della scuola

La nostra scuola fu aperta addì 10 febbrajo 1862. Molti fanciulli già ne traggon profitto: ne abbiamo più di 150 inseriti. Fin da' primi giorni ne contavamo quaranta, e pensavamo che, riguardo alle condizioni del paese, quel numero fosse notabile. Quasi tutti venivano spontaneamente; e più di trenta erano orfani.

A ritenere questi giovani volontari nella nostra scuola ed attirarne altri, bisognava rendere poco fatichevoli le lezioni, e riunire nel nostro Forte vari divertimenti, secondo i gusti di questa gioventù. Il Signore benedisse gli sforzi nostri, e a poco a poco ci guadagnammo discepoli. Non sono tutti veramente assidui; ma noi, paghi della buona volontà che spiegano, ci asteniamo da certa severità, che li farebbe per sempre fuggire.

Il programma nostro è per ora semplice assai: lettura, carattere, abbaco; e non altro. Le disposizioni e l'ingegno de' nostri discepoli sono soddisfacenti. Si sa che, fatto il paragone tra gli abitanti de' paesi sotto i tropici e quelli delle zone temperate, i primi sono più precoci nello sviluppamento del corpo e dello spirito; ma l'intelletto loro, troppo soggetto all'influenza del corpo, sviluppasi debolmente, mentre le facoltà più secondarie dello spirito, cioé la memoria e l'immaginativa, si dispiegano meglio. Però finché non si tratti d'altro che d'imparare materialmente, sembra che i fanciulli di queste contrade facciano progressi più rapidi di quelli de' fanciulli d'Europa; ma sono tosto arrestati nel loro corso veloce; e, mentre gli Europei progrediscono nello studio e di giorno in giorno più lo dilatano, mercé dell'elevatezza dell'intelletto loro, i nostri se ne rimangono nel cerchio delle loro concezioni. Ho stimato bene di farvi motto di questo fatto notevole; perciocché, se si dovesse dare un giudizio de' nostri fanciulletti, messi a confronto con quelli d'Europa, si potrebbe essere indotti a credere, che i nostri Negretti siano superiori ai Bianchi. Ma ecco un esempio, che meglio farà conoscere la differenza che corre tra gli uni e gli altri: un nero impara più facilmente ed in minor tempo un'operazione di aritmetica; ma quando si tratterà di applicare questa operazione ad altro che a numeri, quando converrà fare un'osservazione, fondare un ragionamento con l'ajuto di quella medesima operazione, il nostro Nero si sentirà forte impacciato, mentre l'Europeo, il quale avrà impiegato molto più tempo ad imparare la stessa operazione, ne saprà senza difficoltà alcuna generaleggiarne la legge, e trarne quantità di conseguenze pratichevoli. Questa diversità si manifesta in tutto il resto della vita; e trovasi specialmente nelle lingue; perché, per non dir qui che una parola, la quale in se rinchiuda tutte le osservazioni particolari; nelle lingue, generalmente, di queste contrade, i nomi degli esseri astratti sono sconosciuti; e noi duriamo somma fatica a far concepire ad un Nero un'idea di questa natura. Non piglieremo dunque certi deboli ed effimeri lumi per luci splendenti e durevoli; e nella nostra estimazione porremo al loro vero luogo il merito di certi buoni successi.

L'istruzione religiosa

Eccovi ora il nostro programma d'istruzione religiosa, quale è da noi praticato fin dal principio della missione: dividiamo l'insegnamento in tre parti, che ci formano tre classi di discepoli, i catecumeni, i neofiti ed i cresimati. I catecumeni, oltre ai lunghi sperimenti, a che sono spesso sottomessi, debbono sapere a memoria e comprendere bastantemente per la pratica, il Paternostro, l'Avemmaria, il Credo, i comandamenti di Dio e della Chiesa, e ciò che riguarda il battesimo. Se il catecumeno è in età di pubertà, se gli fa conoscere la necessità del matrimonio cristiano: cosa essenziale in questo paese, ove il vero matrimonio non è conosciuto. Hanno pure tutti un'idea del sacramento di Penitenza, che viene spiegato loro al luogo corrispondente dei comandamenti della Chiesa; ma ad essi non si parla per anche dell'Eucarestia. I neofiti continuano a ricevere istruzioni intorno le medesime materie: si parla loro minutamente del sacramento di Penitenza e della Confermazione. Ricevuti questi sacramenti, vengono preparati a convenevolmente ricevere quello dell'Eucarestia: sono i cresimati. Prima di ammetterli alla sacra mensa, si compie il loro ammaestramento intorno i sette sacramenti, intorno le virtù e le pratiche più rilevanti del cristiano, e, secondo la loro età , loro s'inculca la dottrina di Gesù Cristo sull'unità del matrimonio. A mano a mano che l'istruzione progredisce, si cerca di destare in essi l'orrore delle superstizioni del fettiscismo, a cui sono esposti di continuo e istantemente incitati.

Queste tre classi di discepoli seguitano fedelmente nella pratica le istruzioni che ricevono: la difficoltà maggiore sta nell'ottenere, che siano assidui a venirvi. Quelli che hanno imparato a fare la confessione dei peccati loro, progrediscono rapidamente nel bene; e noi possiamo dire, che, generalmente, la costanza loro nella vita cristiana, e la cura che adoperano a conservarsi nella purezza della coscienza, destano la nostra ammirazione. Si potrebb'essere indotto a credere, che, per gente, la quale non aveva mai inteso parlare di confessione, il confessare le proprie colpe dovesse incontrare di molte difficoltà. Eppure non è così: le difficoltà non esistono se non per coloro, i quali sono immersi nei vizj e deliberati di rimanervi.

Di tutti i fanciulli, che vengono alla chiesa, un quarto non ha ancora ricevuto il battesimo: il concediamo ai catecumeni, a mano a mano che ne li troviamo sufficientemente disposti. Quasi tutti sono nati da parenti cristiani; ma, ancorché sia proibito ai figli dei pagani di venire alla chiesa, di farsi cristiani, alcuni nientemeno danno di tempo in tempo nella rete apostolica. Ecco, fra gli altri, un esempio, che mostra le disposizioni della Provvidenza.

La storia di "Mosé"

Un Nero pagano, da noi conosciuto, aveva sotto la protezione sua un orfanello, figlio di cristiano, ma nato da una donna che appartenevagli. Questo fanciullo frequentava la nostra scuola ed aveva già ricevuto il battesimo. Il Nero pensò, che il giovinetto progredirebbe meglio, se, invece di vivere in libertà, fosse ammesso fra i nostri convittori. Quindi ci mandò pregando, per lettera, di accettarlo, e dichiarando, ch'egli ce lo dava in proprietà; vale a dire, che trasferiva in noi i suoi diritti sopra il fanciullo, siccome è usanza in questo paese. Colui, che ci recò la lettera, aveva seco un proprio figlio del Nero pagano, in età di sette od otto anni; ma perché la lettera non indicava il nome del fanciullo, che ci veniva offerto, e che, secondo lo stile della lettera, sembrava che dovesse essere venuto col portatore, chiedemmo a costui, se il fanciullo in discorso fosse il fratellino che aveva con lui. Vi ho più avanti fatto osservare, che spesso i Neri rispondono affermativamente a qualsivoglia interrogazione, ove non si tratti che di levarsi d'impaccio. Ci rispose dunque di sì. Alcune buone ragioni ci condussero ad accogliere quella dimanda, e tosto ricevemmo il fanciullo, che non era venuto qua, se non per caso in compagnia di suo fratello maggiore. Il fanciullo se ne mostrò contentissimo. Gli togliemmo immantinente dal collo e dalle mani gli oggetti superstiziosi, onde ciascuno qua è sempre munito, e vi sostituimmo una medaglia della Santa Vergine. Si spogliò del suo pezzetto di panno, e fu vestito come gli altri. I nostri discepoli l'accolsero lietamente fra loro, e gli dimostrarono una contentezza maravigliosa. Due ore dopo vennero a scoprirci lo sbaglio, ed a nominare il fanciullo, pel quale era stata fatta l'inchiesta. Nostro consiglio fu di rimandare a suo padre il piccolo Nero; ma il fanciullo non voleva tornarsene a casa, e mostravasi dolentissimo di dover ripigliare la via, ond'era venuto. Qui non finì la scena. Il padre, risaputo lo scambio, ed udito, che i fettisci del suo figliuoletto erano stati mutati in una medaglia della Santa Vergine, e che i missionarj avevano benevolmente raccolto e posto il fanciullo fra i convittori loro, disse, che il fatto così accaduto, doveva sussistere; e ci rimandò il figlio, dicendo: Voi l'avete ricevuto, gli avete messo la medaglia al collo: quindi non è più permesso ad un Nero di staccarsi dai Bianchi. Guardatelo dunque: è vostro.Mai non abbiamo veduto un fanciullo più docile, più savio, più pio di questo all'età di sette od otto anni. L'abbiamo chiamato Mosé, in memoria della maniera con che dal naufragio del paganesimo la Providenza il pose in salvo nella navicella di Pietro.

Il numero de' cristiani sarebbe maggiore, se i padroni volessero far battezzare i figli de' loro schiavi: pochi sono quelli che il facciano. Abbiamo veduto che, secondo una buona tradizione del Brasile, e trasportata nei costumi di qua, il fanciullo battezzato è avuto in maggior stima che se battezzato non fosse: non è più considerato quale schiavo, né può, in verun caso, essere più venduto: il battesimo il pone fra il numero de' figli. Quindi avviene, che i più ricchi, cioé quelli che hanno più schiavi, non permettono a questi di abbracciare il cristianesimo, per poter esercitare più liberamente sovr'essi i diritti di proprietà. Se questi ricchi volessero far battezzare soltanto i figli degli schiavi loro, il numero de' cristiani verrebbe tosto quadruplicato.

I convittori

La storia del piccolo Mosé, ammesso fra i nostri convittori, mi guida a parlarvi un pò più distintamente di questi. E' facile immaginare, che i nostri sforzi per l'educazione de' fanciulli debbano in gran parte rimanere sterili od inutili nello stato compassionevole in cui si trovano i nostri allievi. In fatti, a che debbano essi mai riuscire fra' pagani, venti volte più numerosi di loro, fuori della vigilanza d'un padre e sotto l'influsso d'una madre sempre pagana, spesso schiava e, in ogni caso, umiliata e condannata ad incessanti fatiche tutta la vita? Per non dir nulla del pericolo che corrono i costumi, chi proteggerà un fanciullo contro la sua propria leggierezza, contro le istigazioni dei pagani, contro la inclinazion generale alle superstizioni ed ai pregiudizi, contro la propria madre, quando sottoporrà il figlio suo alle superchierie de' sacerdoti degl'idoli?

Vero è, che abbiamo veduto giovinetti dibattersi arditamente contro la propria madre, che voleva lor porre addosso, per camparli da malattie, oggetti di superstizione; ne abbiamo veduti rinunciare alla casa ed ai parenti loro, per non essere esposti a siffatte prevaricazioni; ma sono esempi rari. Per le quali cose scorgemmo subito, che avremmo prodotto assai maggior bene, se avessimo potuto raccoglierne certo numero per vivere con noi. Dopo varie esperienze, componemmo una scelta brigata: piccola molto, dacché sino ad ora le facoltà nostre non ci permisero di riunirne più di dodici. Questi fanciulli rispondono compiutamente alle nostre speranze: tolti dal paganesimo e riuniti nel recinto del nostro Forte, menano una vita del tutto cristiana, regolata non altrimenti che in un convento fra popoli fedeli. Non conoscono le superstizioni del paese, se non per abborrirle e per destarne l'orrore in altri. S'intende, come siano in caso di ricevere istruzione molto migliore degli esterni, i quali sono abbandonati a se stessi; e come l'influenza della nostra parola e del nostro esempio sopra di loro sia molto più compita. Non sono ancora due anni che vivono con noi, e già ne rendono servigi importanti. Essi, sotto la direzione d'un missionario, mantengono pulita la chiesa, servono alle funzioni sacre, e ravvivano colla loro voce i cantici della Chiesa. Ci ajutano nell'istruzione religiosa degli altri fanciulli, e ci servono d'interpreti nelle tre lingue del paese, le quali, oltre il portoghese, si parlano a Vidah. La conversazione loro riconduce alle pratiche religiose i loro condiscepoli esterni, che a poco a poco si lasciano vincere dall'esempio di fanciulli simili ad essi.

I convittori nostri seguitano le lezioni come gli esterni; ma oltre le ore di studio comuni a tutti, hanno poi, la sera, una lezione speciale. Quindi si scorge, che se noi potessimo raccogliere un maggior numero di fanciulli, se noi avessimo i mezzi di far loro imparare un mestiere, giungeremmo a mettere fra gl'idolatri un germe, il quale non mancherebbe d'essere fecondo, e dal quale uscirebbero le future generazioni cristiane, destinate, nei consigli di Dio, a produrre la conversione del paese. Conciossiaché, supponendo pure, com'è da temersi, che rientrati nel mondo, si pieghino facilmente al male, ogni cosa non sarà certo perduta: l'istruzione che ricevettero, non gli lascierà marcire nell'ignoranza; perché la luce, ove cominci a mostrarsi, va sempre crescendo. Se mancheranno ai loro doveri, almeno il sapranno: avranno cura, che i figli loro ricevano un'educazione, di cui essi stessi hanno gustato gl'immensi vantaggi. Il successo sarà perfetto, quando potremo fondare, per le fanciulle, stabilimenti simili a quelli dei ragazzi; e se un giorno la missione giungerà ad esercitare la sua influenza sopra i due sessi, non sarà più impossibile di dar lo spettacolo, ancora ignoto in queste regioni, d'un matrimonio cristiano. Questo giorno, giunto che sia, segnerà il principio della rigenerazione de' nostri affricani. Se Dio ci sostenga e ci mandi zelanti e numerosi operaj, l'opera, per grazia sua, sarà condotta a buon fine.


VAI A PARTE QUARTA