MATEL E IL CAIMANO

La storia di Matel merita proprio d’essere raccontata;
non capita tutti i giorni di incontrare un uomo di questa tempra.
Matel era un famoso cacciatore di bufali, antilopi, leoni ed
elefanti. La sua capanna era piena di pelli d’ogni tipo,
che i trafficanti gli compravano regolarmente.
La generosità di Matel andava al di là di ogni immaginazione.
Fu proprio la sua generosità a causare
la sua disgrazia o forse... la maledizione di quel coccodrillo
veramente strano.

I giorni scorrevano lieti nel villaggio in riva al fiume:
giorno e notte le piroghe dei pescatori tendevano le reti,
le donne attingevano l’acqua, lavavano i panni ed i bambini,
tutta la gioventù vi si riversava durante le ore di calura.
La spiaggia era veramente il cuore allegro del villaggio.

Poi un giorno apparve un coccodrillo misterioso,
il più grosso che i pescatori avessero mai visto.
S’installò in una caverna dell’opposta riva
e fu per gli abitanti come un’epidemia mortale.
Le devastazioni di quel rettile strano erano infinite:

aveva danneggiato o colato a picco molte piroghe,
aveva rapito più d’un bimbo e divorata una donna.
Impossibile per le donne attingere l’acqua al fiume
e molto arduo per i pescatori uscire con le reti a pesca.
I numerosi sacrifici offerti non servirono a placarlo;

per questo si affermava che fosse uno «straniero».
I grandi cacciatori di caimani avevano tentato di tutto:
l’animale era d’astuzia superiore, fuori del comune.
Lo credettero un Genio del male, non restava che fuggire.
Fu a questo punto che Matel prese la sua decisione:

non avrebbe più dormito se non l’avesse ucciso.
Innanzi tutto Matel doveva scoprire la tana del caimano:
per questo passava le sue giornate ad analizzarne le tracce.
La bestia, infatti, usciva tutte le notti a cercare il cibo
e Matel con tenacia paziente finì per trovare un indizio.

I caimani hanno le loro tane nelle caverne sotto le sponde,
ma l’entrata della caverna é sempre sommersa e invisibile.
Da piccoli indizi che erano sfuggiti a tutti
Matel scoprì il luogo, un giorno di brutto tempo,
così decise senza indugio di passare all’attacco.

Matel preparò due grandi arpioni a manico corto,
vi fissò un filo di ferro di una ventina di metri,
poi alle dieci del mattino si appostò in agguato
e restò in ginocchio per non proiettare l’ombra sull’acqua.
Dopo due ore di attesa, delle bolle d’aria salgono lente

e subito Matel butta in acqua un po’ di terra,
mentre stringe l’arpione pronto a fulminare.
Un lungo muso infine emerse lento ornato d’occhi minacciosi.
Il braccio scattò come un serpente e l’arpione sibilando
andò piantarsi proprio nel mezzo di quei crudeli occhi.

L’animale spazzò la superficie con una codata furibonda
poi sparì nel profondo sollevando turbini, terra e schiuma.
Ma già l’uomo aveva fissato il cavo d’acciaio a un albero.
L’animale rimontò alla superficie, ma subito scomparve
prima che Matel potesse affibbiargli il secondo arpione.

L’animale allora si batté con tutte le forze, furibondo.
L’acqua del fiume era diventata gialla e dei piccoli caimani
uscirono dal fondo per rifugiarsi tra le erbe della riva.
Matel tentava sempre di piazzare il suo secondo arpione,
ma l’animale si spostava continuamente fuori tiro.

Poi ecco un secondo caimano uscì dall’acqua silenzioso,
passò dietro a Matel e lo colpì con una rude codata.
Matel fu proiettato a terra come percosso da un fulmine
e l’aggressore beffardo si tuffò subito nel fiume.
Matel con la schiena sanguinante riuscì a rialzarsi

e a riprendere posizione con gli occhi fissi sull’onda.
Il caimano s’era immobilizzato sul fondo, in agguato.
Intanto sull’opposta riva le donne avevano visto Matel
ed erano corse a chiamare gli uomini del villaggio.
Questi accorsero numerosi e unendo il loro sforzo

tirarono sul cavo d’acciaio: la lotta riprese accanita
l’acqua del fiume ribollì di nuovo minacciosa,
poi finalmente il mostro si scoprì e Matel lo fulminò;
Lo tirarono a riva: era una gigantesca femmina caimano.
Tentò ancora una lotta disperata, poi crollò sotto i colpi;
Allora le aprirono il ventre per scoprire il mistero:

c’erano vari anelli di donne divorate, collane e perfino
delle pallottole di fucile: resti di un cacciatore bianco?
La carne fu portata nel villaggio e Matel distribuì tutto.
Ultima venne pure una vedova ed ebbe la sua parte.
Matel aveva distribuito la carne di buon cuore

pensava di fare un’offerta a Dio per ringraziarlo.
I suoceri della vedova ci videro invece un’intenzione cattiva
e accusarono Matel d’essere disonesto e profittatore.
Le accuse presero Matel di sorpresa;
da uomo ingenuo e innocente non seppe neppur difendersi.

Gli fu confiscata la mandria di capre e altri beni;
insomma fu umiliato e ridotto alla miseria in modo iniquo.
Non potendo sopportare ciò, un bel giorno sparì dal villaggio
e misteriosamente andò a vivere con le fiere.
La sua partenza divise la gente in due gruppi opposti:

chi affermava che Matel era innocente, malediva gli altri.
Volavano gli insulti e si rischiò di venire alle mani.
Anche mio padre, cacciatore e amico di Matel, fu preso a parte,
accusato di essere un fannullone perché sempre in giro a caccia.
 Di fatto, invece di coltivare i campi, noi vivevamo della caccia

e gli abitanti venivano tutti i giorni a barattare
del miglio contro la carne che non mancava mai.
Tuttavia istruito dall’infortunio di Matel
mio padre non diede più nulla, senza pagamento.
Di solito cacciava con suo fratello minore.

Poi un giorno mi ingiunse di prendere il suo posto. Avevo 15 anni.

Partiti di gran mattino prima dello spuntar del sole,
già all’uscita del villaggio vi furono presagi infausti:
dapprima un porcospino ci attraversò il sentiero e poi
mio padre non riuscì a trovare la solita sorgente.
Il sole era micidiale e la sofferenza era insopportabile;
allora per calmare la sete dovemmo succhiare dei tuberi.

Li divorai per dissetarmi e il gusto era delizioso.
Ma passammo invano la giornata senza colpire una preda;
mio padre era sconsolato; una faccenda mai successa.
Passammo la notte sotto un albero tormentati dalle zanzare
e non potemmo chiudere l’occhio neppure per qualche istante.
Eravamo completamente persi e l’indomani ci levammo all’alba;

subito riprendemmo la ricerca del sentiero del ritorno.
Il sole era già alto quando scoprii delle tracce di sangue;
il sangue era fresco, d’uomo o d’animale ferito?
Mio padre era fuori vista quando notai qualcosa in cielo:
due aquile serpentarie si contendevano una grossa preda.
In quel momento risuonò il colpo del fucile di mio padre.

I due serpentari mollarono la preda, un gran serpente.
Per quale caso il serpente cadde sulla spalla di mio padre?
Lo morse al collo poi, scivolando, lo morse alla caviglia.
Balzai in avanti e vibrai un gran colpo di bastone,
ma il colpo andò a vuoto e il serpente mi fu addosso.
Lo schivai gettandomi sul fianco e mio padre mi soccorse

con un colpo di bastone schiacciò la testa al selvaggio.
Già la sua gamba gonfiava e pure il collo.
Così corremmo alla ricerca delle radici anti-serpente.
Ma quasi subito il padre si sentì male e si accasciò.
Eravamo perplessi e impotenti: lui già incapace di camminare,
io, ignorante di antidoti, non potevo proprio nulla.

Allora silenziosa era uscita dal folto una forma umana;
un uomo così selvaggio da mettermi paura:
capelli lunghi e irti, vestito a brandelli e ciglia folte.
Da quanto tempo l’uomo non s’era né lavato né rasato?
L’uomo si fece avanti senza salutare e guardò mio padre.
Io gli mostrai il serpente e lui abbozzò una smorfia triste,

poi frugò nel suo sacco in pelle di sciacallo,
ne estrasse una polvere che mescolò con acqua
e poi versò nel naso del malato, che aveva chiusi gli occhi.
L’uomo intagliò le morsicature e vi versò il liquido.
Mi ispirò fiducia e lo lasciai agire. Mi fece pure bere
e partì alla ricerca di altre erbe medicinali;

ma l’acqua della sua borraccia mi diede mal di pancia.
Ritornò con delle scorze d’albero che ridusse in polvere,
le mescolò con l’acqua che versò nel naso di mio padre:
fu allora che il malato vomitò del sangue.
L’uomo gli sollevò la testa e lo fece bere.
Mio padre riuscì a bere e subito fu preso da singhiozzo.

Lo sconosciuto infine abbozzò un sorriso di vittoria.
Capii che mio padre era salvo e sorrisi pure io.
Infine anche il padre aprì gli occhi e chiese da bere.
Dopo qualche istante i sintomi del male diminuirono
e mio padre sorridendo guardò il selvaggio.
«Dimmi chi sei, perché possa dirti grazie!» disse

Il selvaggio rimase muto, ma io notai una lacrima colare.
Eravamo commossi e perplessi quando l’uomo s’esclamò:
«Sono il tuo amico Matel ridotto a vivere con le fiere;
perché odio il villaggio e tutti i suoi abitanti,
preferisco gli animali: sono molto più leali.»
I due amici passarono insieme tutta la giornata

e la sera Matel ci accolse nel suo tugurio.
Conversammo tutta la notte e finalmente mio padre
riuscì a convincere Matel di tornare, per consolare
la moglie e i figli che lo piangevano da mesi come morto.