Chiacchierando ocn gli anziani

L'autrice dell'incontro

E' un venerdì di Novembre. Sono in missione sul campo per conto dell'IFAN che mi ha messo a disposizione un veicolo 4X4, un autista e qualche migliaio di franchi per pagare l'interprete e gli informatori che incontrerò.
Siamo alla fine del Ramadan. Fa caldo. L'autista si asciuga continuamente la fronte ma rifiuta anche un solo goccio d'acqua. Aïssatou fa uno strappo alla regola, mangia con me biscotti al cioccolato e pane e formaggio, e beve l'acqua fresca della mia borraccia: dice che recupererà un giorno di digiuno dopo la festa della Korité.
E' difficile annotare quello che vedo e ciò che mi spiega Aïssatou perché i salti della macchina sulla strada dissestata e scavata dalle recenti piogge mi fanno traballare penna e quaderno.
Decido di memorizzare il più possibile, ci sono abituata. Quando vado nei villaggi a chiacchierare con gli anziani rinuncio a tutto ciò che può metterli a disagio, mi disarmo di registratore, penne e quaderni affinché la conversazione sia spontanea e familiare.
Questa volta però sono decisa ad annotare ciò che mi racconteranno donne e uomini della salina, anche perché il contatto quotidiano con i turisti li ha abituati a raccontarsi ai tubab.

Lavoro digiuno e preghiera

Arriviamo al lago Rosa alle quattordici circa. E' l'ora della preghiera ma nessuno si ferma, si pregherà la sera. La voce del muezzino della moschea di Niaga non arriva fin qui e ciò rende i cuori più leggeri: un buon musulmano deve pregare cinque volte al giorno e almeno un venerdì al mese non mancare la grande salat al djoumaa.
Le bettole sono comunque chiuse, si lavora ma si digiuna. Solo la comunità cristiana sereer prende il pasto di mezzogiorno.
Il lago è meraviglioso, di un lilla intenso. Aïssatou è contenta, dice che oltre a guadagnare qualcosa si libera lo spirito da pensieri fastidiosi, e mi ringrazia.
Ci mettiamo d'accordo per dire che siamo laureande, speriamo in questo modo di risultare più simpatiche ed ottenere risposte soddisfacenti. Decidiamo di parlare con le donne che stanno setacciando il sale sulle collinette bianche.
Saliamo a stento, ad Aïssatou comincia a bruciare la pelle dei piedi. Mi accorgo che porta degli infradito per cui il sale si deposita tra le dita.
Le donne ridono e ci mostrano i loro, rugosi, induriti e lucidi di burro di karité. Accettano di rispondere alle nostre domande ma tre giovani scolarizzati del luogo, che lavorano come guide turistiche, si intromettono e dicono di conoscere tutto sul lago.

Sorelle e zie che rispondono

Cominciano a rispondere al posto delle donne le quali si lamentano rimproverandoli di guastar loro gli affari. Noi le rassicuriamo e suggeriamo loro di dire sempre e comunque cosa pensano. Sono un gruppo di cinque tra sorelle e zie, la più giovane interviene spesso mentre la più anziana accetta di parlarci in disparte quando i giovani hanno finito con i loro dati scientifici.
Un anziano che fa parte del Comitato di vendita si unisce a loro e ci indica il villaggio lebu di Déni Biram Ndao. Là vive Ablaye Ndoye, un anziano maestro discendente del fondatore del villaggio che potrà raccontarci il cosaan, la tradizione.
I giovani ci restano un po' male, credevano di averci detto tutto quello che volevamo sapere, allora li ringraziamo sinceramente delle preziose informazioni dateci.
Ci invitano a salire su una piroga e a fare un bagno: cosa impossibile per noi! Ringraziamo anche le donne, scherziamo un po' con loro sull'uso che fanno dei soldi guadagnati dalla vendita del sale (Farsi belle per il marito? Partecipare alle spese familiari o spenderli per i propri bisogni personali?) e poi facciamo a tutti un piccolo regalo in denaro. Sorridono e ci augurano di tornare presto.
Aïssatou continua a lamentarsi del bruciore ai piedi, decidiamo di chiedere alle donne del villaggio stagionale un po' d'acqua dolce per sciacquarci la pelle.
L'autista si fa un sonnellino all'interno dell'automobile. I bambini ci rincorrono e ci chiedono caramelle e penne. Le penne non possiamo dargliele ma i biscotti sì.

La vita dura al lago

Da una buca profonda qualche metro e protetta da uno struttura circolare di rami che sostiene della tela di plastica nera, una donna tira su una latta con dell'acqua per Aïssatou che sospira di sollievo. Poi parliamo con una delle madri, seduta su una panca all'ombra di un riparo di sterpi, la quale ci racconta come sia dura la vita al lago.
Suo marito è salinaio, lei vende il carbone. Lavorano per risparmiare e poter tornare ogni due anni in Guinea. Al mio stupore che i bambini non vadano a scuola, la giovane mamma guineana mi dice che non ha le possibilità di farlo ed io mi rattristo. Al villaggio, avevano provato ad aprire un daara, ma poco tempo dopo il Serigne ha rifiutato di continuare perché ad ogni pullman di turisti che arrivava i bambini scappavano, preferendo caramelle e monetine alla recitazione del Corano.
Aïssatou ed io sorridiamo davanti al candore e alla furbizia di quei piccoli « pezzi di legno » (circonlocuzione per indicare i bambini, in wolof bant).
Facciamo anche a lei un regalo e poi torniamo alla macchina, l'autista ci chiede se abbiamo terminato e non pare molto contento di doversi spostare a Déni, vuole tornare a casa prima della rottura del digiuno (ndogu) alle sette di sera.
Lo tranquillizziamo e ci mettiamo in cammino. Ci scusiamo con lui di sgranocchiare ancora qualche biscotto e di bere.
Lasciati alle spalle turisti e salinai, costeggiamo il lago verso nord-est.
L'acqua si increspa sotto la brezza e le piccole onde rosa si guarniscono di una leggera schiuma bianca, ho voglia di immergervi almeno i piedi ma Aïssatou mi ricorda i suoi bruciori e mi riporta alla realtà. Passiamo Khar Yalla, Déni Guedj e Déni Niayes: non c'è quasi nessuno, sono più o meno le quattro.
Villaggi poveri, immersi nella sabbia, mi chiedo se avrei la forza di viverci.

Il primo incontro: ma il vecchio non c'è

A Déni Biram Ndao c'è l'asilo, la scuola elementare, la moschea, il dispensario. Il passaggio di taxi-brousse assicura il tragitto per Rufisque. Una donna affacciata alla finestra ci indica la casa di Ablaye Ndoye.
La troviamo dietro un grande albero: una corte quadrata dove le donne sedute per terra in cerchio lavorano la farina di miglio, una balaustra dove vecchi e bambini si siedono al fresco, le camere. La figlia di Ndoye, Ami, ci introduce nella sua camera da letto.
Dietro la tenda rossa a fiori, nella penombra della stanza un bambino di pochi mesi dorme non curante delle mosche che gli ronzano intorno. Prendiamo posto su una panca di legno appoggiata al muro. Ami si siede su una sedia di plastica bianca vicino all'armadio.
Grandi ritratti dei califfi di Tivaouane sulle pareti azzurre ci fanno capire che siamo in una famiglia tidjane.
Sono in genere i Lebu di Cambérène e di Yoff che appartengono alla confraternita layènne. Ami parla in wolof, solo dopo ci dirà che ha studiato fino al ginnasio e che ora cerca un lavoro a Dakar. Ablaye Ndoye è uscito, sua moglie non c'è.
Ami ci chiede chi ci ha indicato la loro famiglia e che cosa vogliamo sapere. Esce, torna con lo zio, fratello maggiore di Ablaye Ndoye, una vecchia guaritrice e un giovane.
E' una scena che si ripete ogni volta che faccio una ricerca sul campo: alla persona-chiave si uniscono membri diversi della famiglia e giovani estranei che intervengono senza essere stati interpellati sostituendosi poco a poco alla voce del vecchio.
Ascolto con pazienza, poi torno una seconda volta; essendo già conosciuta non desto più così tanta curiosità e posso parlare con tranquillità con i veri depositari del sapere.

Virginia Bruzzone