IL TRENTESIMO PITONE

È per l’uomo l’animale più innocuo; vive, infatti, nel profondo
delle selve dove raramente incontra il bipede malefico.
Si arrotola su un tronco là ove passano gli animali
e si lascia cadere sulla preda, che avvolge nelle sue spire
sostenendosi alla coda. Prima di tutto allunga la preda
e poi la ingoia. Un grosso pitone arriva a dieci metri di
lunghezza e può abbattere un bufalo selvaggio o un leone.
Ma una volta su centomila può darsi che sul luogo
dell’agguato, al posto dell’animale passi l’uomo.
E quel giorno capitò proprio a Tangar,
un cacciatore di prima classe. Sentiamo!

Cacciare é la mia passione, il mio mestiere, tutto.
Per questo la gente dice che ho sposato la caccia,
come il musicista ha sposato la cetra o il tamburo;
e non cerca sposa, perché la musica é per lui tutto.
Rai fu il mio maestro e con lui imparai tutti i segreti:
come parare all’attacco del bufalo, del leone o della pantera;
come reagire alla carica del rinoceronte o dell’elefante,
che erbe usare contro il morso dei serpenti velenosi.

Infine mi forgiò con le sue mani una lancia particolare
e da quel giorno cacciai solitario, solo coi miei cani.
Avevo ucciso già ventinove pitoni e venti antilopi,
dieci elefanti, sette pantere e tre bufali,
due giraffe, un leone, senza contare facoceri e gazzelle.
Ma Rai prima di morire m’aveva ingiunto con gravità:
«Il tuo trentesimo pitone ti sarà fatale, stai attento!»
Adoro la caccia solitaria, solo coi cani sono felice.

Quel mattino di novembre partii di buon’ora con due cani;
il primo, un grosso adulto, era il più esperto;
l’altro un cane giovanissimo, era alle sue prime armi.
Correvano insieme tra le alte erbe sulla pista di conigli,
scoiattoli, genette o le mille specie di grossi roditori;
Ogni tanto ne acchiappavano e me li portavano felici.
Quando il sole fu allo zenit la mia bisaccia era piena;
la calura ci spinse sulle sponde di uno stagno, tra gli alberi,

dove dopo essermi dissetato, coglievo legna per il fuoco.
Nel frattempo i due cani avevano levato una gazzella
e la sospingevano verso di me abbaiando per avvertirmi.
Macchinalmente afferrai la lancia, la scagliai sull’animale;
benché ferito quello continuò la corsa davanti ai cani.
Ripresi la lancia e abbandonando la bisaccia li seguii.
Per tagliare la strada all’animale passavo in un bosco fitto
quando un peso arrivato dall’alto mi schiacciò per terra;

non ebbi il tempo di fischiare ai cani per chiedere aiuto,
che già la bestia m’avvolgeva e cercava di stritolarmi:
era il trentesimo pitone che Rai m’aveva annunciato;
temevo come la peste d’incontrarlo. M’aveva cercato lui!
Sentivo il latrato debole e lontano dei miei cani
segno che avevano raggiunta la gazzella e mi chiamavano;
Ma il pitone stringeva talmente che mi scricchiolavano le ossa
e sentendomi morire riuscii ad estrarre il pugnale,

 ad appoggiarlo verticalmente in gola al mio nemico
per impedirgli di ingoiarmi a partire dalla testa.
Intanto uno dei miei cani mi trovò e richiamò il compagno.
Entrambi si misero a latrare furiosi contro il pitone,
ma questo imperterrito cercava sempre di ingoiarmi
e con la lingua tentava di rigettare il mio pugnale.
Allora i cani si gettarono sulle spire mordendo feroci;
il più piccolo mordeva qua e là saltando ed abbaiando,

ma il più grosso strappava brandelli sullo stesso punto.
Il pitone girò gli occhi per guardarli, ma non poteva nulla,
poiché la sua bocca era bloccata dal mio pugnale.
Tentò ancora di respingerlo con la lingua vischiosa,
ma io ne approfittai per conficcarlo più profondo.
Il pitone allora, sopraffatto dal dolore allentò la presa
e al momento stesso il mio braccio mi ricadeva inerte,
lasciando il pugnale nella bocca del nemico. Caddi a terra

e semi-cosciente assistei alla furia infernale dei cani.
Con il fianco squarciato il pitone cercava di liberarsi
e la sua coda ogni tanto mi toccava e mi avvolgeva.
Dopo molto tempo mi alzai appoggiandomi su un legno,
avanzai qualche decina di metri e ricaddi a terra;
sentivo i cani continuare la loro opera distruttrice.
Poi il cane giovane mi fu accanto e mi leccò le piaghe
e allora ripresi la mia marcia dolorosa e lui mi guardava;

mi guardava con gli occhi tristi perché non ne potevo più.
Stringevo i denti per non crollare ad ogni passo.
Poi m’accasciai sfinito senza forze. Per quanto tempo?
Quando ripresi i sensi tentai di rialzarmi, ma non potei;
Allora cominciai a rotolare per raggiungere la bisaccia.
Infatti, il mio istinto vitale mi diceva chiaramente
che lì stava la mia salvezza: i fiammiferi, il fuoco!
Dovevo assolutamente raggiungere i fiammiferi e la bisaccia.

Quando finalmente la urtai con la fronte mi sentii salvo.
Bevvi lentamente e a lungo l’acqua della borraccia e respirai,
e sentii il dolore serpeggiare acuto in tutto il corpo.
Il sole scendeva all’orizzonte e la foresta s’oscurava
mentre i cinocefali abbaiavano sulle cime degli alberi
e uccelli d’ogni specie salutavano il morir del giorno.
Ma dove era andato a finire il mio vecchio cane?
Lanciai un fischio, invano. Solo il piccolo era accanto a me

e mi guardava negli occhi e agitava la sua coda:
temeva un attacco notturno. Allora accesi il fuoco.
Un leone ruggiva in lontananza e a destra muggiva un bufalo.
Il mio compagno scomparve un istante per andare a bere
poi ritornò e mi girava attorno come una sentinella.
Io intanto avevo gettato uno scoiattolo sul fuoco,
lo estrassi, lo lasciai raffreddare e lo diedi al cane.
Oh quanto fu lunga quella notte! Non sembrava mai finire.

Nessuno dei due poteva dormire: io gemevo e lui mi guardava.
Già la scorta di legna era finita e il fuoco si affievoliva
quando apparve «Mankaydajé», la stella del mattino,
la stella che invita gli animali a bere prima dell’alba.
A quel momento risuonò un abbaiar lontano. Che sarà?
Dopo un po’ l’abbaiare riprende più vicino e poi cessa.
Un istante dopo eccomi accanto il vecchio cane; mio Dio!
Mi lecca, poi annusa l’aria e riparte da dove era venuto.

Un’ansia terribile e un’immensa speranza mi scuote;
ecco che tra il bisbigliar del vento mi giungono voci umane.
Il giovane cane sente le presenze e si mette a ringhiare.
Ma ecco il grande riapparire, mi guarda e subito riparte.
Il piccolo lo segue. Mi ritrovo solo, l’ansia é al colmo.
Qualche minuto dopo erano lì entrambi seguiti da umani:
erano i miei parenti e tra loro un mio giovane fratello.
Era stato il vecchio cane a condurli; a lui devo tutto.

Mi palparono in tutto il corpo, non c’è alcun osso rotto.
Arrostirono il contenuto della bisaccia e mangiammo un po’.
Poi ritrovarono il corpo della gazzella e anche il pitone.
Era morto e ricoperto dalle grosse formiche nere carnivore.
Costruirono una barella e mi trasportarono al villaggio,
mi deposero nella capanna di una donna-guaritrice, in disparte.
Ci vollero tre mesi prima che potessi camminare da solo.
Rai aveva ragione, il trentesimo pitone mi voleva morto.