ASSISTO AL MIO FUNERALE

In questo mondo capita di tutto. Che il più fifone diventi il più
grande cacciatore del villaggio, passi. Ma che per l’occasione,
il tipo in questione faccia da spettatore al suo proprio funerale...!
E’ una storia che vale la pena d’essere raccontata.
L’uomo in questione odiava la caccia e ogni volta che una
partita di caccia s’annunciava egli trovava mille scuse per trovarsi occupato altrove, ai fatti suoi.
Cosa gravissima, in un villaggio dove ogni individuo deve adeguarsi e seguire il cammino ancestrale.
Fortunatamente, non abbandonava mai il suo «mian», il lungo coltello da lancio a tre lame.

Le beffe degli amici salivano alle stelle;
nessuna ragazza mi degnava d’uno sguardo
e se tentavo approcci, mi fuggiva come peste.
Dicevano: «Noi cerchiamo un uomo e tu invece
altro non sei che una donna in pantaloni»

Non avevo parole per rispondere e stavo zitto;
tutti i miei coetanei avevano già un focolare.
Ma appena legavo con una ragazza le amiche dicevano:
«Con quel tipo mangerai solo polenta ed erbe amare!
la carne non toccherà più i tuoi denti.»

Ma un giorno incontrai quella dei miei sogni;
io ne andavo pazzo e lei m’amava caldamente.
Infine inviai gli amici a prendere contatto con i suoi genitori
per versare i soldi della dote: fu un rifiuto secco.
«Noi non affidiamo nostra figlia ad un mollusco!»

Volevano dire per là ch’ero incapace di proteggerla.
Fu il colpo di grazia ad ogni mia speranza.
Il mio morale ne uscì completamente distrutto
e mi trovai come il più infelice degli uomini.
«A che mi servivano i miei granai colmi?»

Da quel giorno non parlai più con nessuno
e passavo le mie giornate nei campi a pensare.
Anche quella sera me ne tornavo solo e pensieroso,
il sole tramontava e si levò uno stormo di faraone.
La ruota del destino si mosse per me bruscamente.

Mi guardai intorno furtivo temendo spettatori ilari,
poi lanciai timido il mio coltello mian;
era la prima volta che mi provavo su una preda.
Oh miracolo, due pennuti piombarono al suolo;
Ero così sorpreso che il cuore mi scoppiava in gola.

Raccogliendo i due volatili ero al settimo cielo,
ma subito fui triste: nessuno mi crederà.
Essendo mia madre morta, li consegnai alla matrigna
una donna odiosa che per consolarmi mi diceva:
«Alla morte di tuo padre sarò tua sposa, non temere!»

Raccogliendo le due prede spalancò gli occhi da morire
poi corse dalle amiche, e la notizia fece il giro del paese.
Nessuno evidentemente ci credette e ridevano a crepapelle
«Uccise da lui, le faraone? Prima che uccida un granchio
spunteranno le corna anche agli asinelli!»

Era troppo, da quel giorno non potei più dormire
e una voce insistente mi spingeva a fuggire lontano,
a compiere grandi imprese per tornar ricco a casa
con la più bella donna e far crepare d’invidia tutti.
Lottai a lungo contro questa voce finché una notte...

Tutti ancora dormivano quando m’alzai furtivamente;
raccolsi la mia lancia, i due «mian» e la borraccia
e camminai silenzioso lungamente sotto la luna.
Andavo dritto tra le alte erbe bagnate di rugiada
e mi arrestai un istante, solo al levare del sole.

Entravo in quel momento in una foresta sconosciuta;
le grandi liane e gli arbusti mi sbarravano il passo
e le chiome degli alberi erano cosi imponenti
da lasciare a stento penetrare i raggi del sole.
Ma andavo col petto gonfio d’ira e di sogni, e continuai.

Così avanzai ancora aprendomi spesso il varco con le armi,
mentre il sole saliva lentamente nel suo lungo viaggio.
Madido di sudore m’ero arrestato ai piedi d’un tamarindo
quando un coro di grugniti portati dal vento mi raggiunse.
Strinsi le armi e mi avanzai strisciando tra gli arbusti:

a pochi metri un’orda di facoceri scavava il suolo, allegra.
Avevo una gran voglia di fuggire, ma poi vinse la rabbia.
Avanzai come un serpente per giungere in buona posizione
poi scattando bruscamente spedii i miei mian a raffica.
L’orda si disperse come uccelli in volo e, oh miracolo!

due enormi bestie si contorcevano per terra urlando;

la più grossa si levò e mi caricò furiosamente.
Mi ricordai i racconti degli amici del villaggio:
bisogna stringere le ginocchia e presentare la lancia.
Così agii d’istinto e il bestione si trovò impalato.

Così nello spazio di qualche istante, con facilità
avevo ucciso due grosse prede senza compiere un errore.
Mi sembrava di sognare e mi dicevo: «Vorrei vederle,
le facce dei miei amici quando gli sbatterò lì i due facoceri!
Alcuni di loro non hanno mai ucciso più che lepri e gatti!»

Ero così esaltato che non mi sentivo più lo stesso;
dov’era mai finita la mia grande paura? Non mi capivo.
Adesso non temevo neppure il leone o la pantera.
Tagliai una coscia a ciascuna delle prede, raccolsi le armi
e tentai di ritrovare le tracce del ritorno. Impossibile!

Non solo il luogo m’era sconosciuto, ma non m’orientavo più.
Preso dai miei pensieri non avevo osservato il sole
e il sole adesso era proprio in mezzo al cielo.
Ma avevo il cuore così leggero, che questo non mi turbò
e presi il tempo di ricoprire le prede di rami spinosi.

Poi prendendo una direzione, me ne andai dritto
e camminai per cinque ore senza sapere dove andavo
incontrando via via animali selvaggi e uccelli;
ma dell’animale umano non la minima traccia,
finché il sole cominciava a scendere dietro gli alberi.

Fu allora che un asino ragliò lontano, così mi parve.
Mi diressi verso la sorgente del rumore e l’asino riprese;
ero entrato in zona coltivata e presto apparvero le capanne.
Era un villaggetto nella foresta e già moriva il giorno,
Una donna usciva da con una tazza in mano e mi vide;

mi borbottò qualcosa, forse un saluto, ma non capii nulla.
Entrò nella casa, ne uscì un giovane che mi strinse la mano
e mentre salutava seppi che non parlava la mia lingua.
Come? Ero addirittura uscito dal territorio tribale?
Gli mostrai le cosce dei facoceri indicando la foresta.

Mi fece segno con la testa d’aver capito, ma era già buio.
Poi entrammo nel cortile dove un adulto attizzava il fuoco
e mi scrutò lungamente ai bagliori della fiamma.
Parlarono a bassa voce e conclusero che m’ero perso.
Arrivò altra gente, confabularono curiosi, ma non ostili.

Finalmente mi offrirono una stuoia e mi servirono il pasto.
La fame mi torturava alla vista del cibo e mangiai ghiotto.
Quando ebbi finito il giovane venne a prendere le tazze
e ne approfittai per offrirgli le due cosce dei facoceri.
Le prese come delle offerte sacre, con un sorriso,

poi mi condusse in una casupola per passare la notte.
Ma non chiusi occhio e mille idee correvano nel cervello:
«In che villaggio non sono mai capitato e tra che gente?»
Mi rivenivano alla mente tante storie di viaggiatori
capitati tra cannibali, massacrati nel sonno e divorati.

Ogni tanto dei passi risuonavano attorno alla capanna
e allora tossivo per mostrare che ero sveglio e pronto.
Forse mi sorvegliavano, magari per proteggermi
o forse per impedirmi di fuggire e mettermi in marmitta?
Come Dio volle, un gallo cantò e s’affacciò il giorno.

Una fanciulla mi portò l’acqua per lavarmi e un po’ di cibo,
poi il giovane con un gesto m’indicò la foresta,
partimmo svelti per ritrovare i due facoceri e subito
quattro giovanotti armati ci fecero corteo.
Si muovevano con tale agilità che ne fui attonito.

Io esitavo sulla direzione, ma loro se ne andavano sicuri,
avanzavano leggeri come felini tra liane e cespugli
si capiva subito che era un popolo di cacciatori.
Io li seguivo. Dopo quattro ore di rapidissima marcia
ecco gli avvoltoi, alti nel cielo, si gettavano a picco
verso un punto preciso.

Centinaia d’avvoltoi s’accanivano a strappare i rami spinosi
e già i più arditi toccavano alle carcasse dei facoceri,
quando i giovanotti urlanti irruppero sul luogo
e la massa rabbiosa dei pennuti fuggì starnazzante.
Le mie prede erano ancora intatte, magnifiche.

I giovani dopo averle ammirate le fecero a pezzi
poi ognuno prese il suo carico e rientrammo.
Accolto come prode cacciatore fui ospite d’onore.
Restai tra loro alcune settimane cacciando e conversando.
Erano della tribù degli NDAM, esclusivamente cacciatori.

Così imparai facilmente la loro lingua e le loro tecniche,
mi comportai con bravura e mi stimarono talmente
che il capo del villaggio mi propose sua figlia in sposa.
Ero veramente un altro uomo e spariva il mio passato;
dimenticai gli insulti e desiderai rivedere la mia casa.

Furono in quattro ad accompagnarmi, dopo una prima pioggia;
dopo quattro ore di veloce marcia apparirono i miei campi
e mi parve strano che fossero già seminati.
Allora le orecchie furono percosse dal suono dei tamburi;
il rumore di canti e danze veniva proprio da casa mia.

Il villaggio s’era riunito per festeggiare la mia morte.
Capii allora perché qualcuno avesse seminato nel mio campo.
Presi la cosa bonariamente e invitai gli amici ad avanzare:
«Venite a mangiare e a bere per la mia morte, su allegri!»
Vi lascio immaginare la faccia dei miei compaesani!

Lasciai le spiegazioni agli amici NDAM e festeggiammo.
Dopo questi avvenimenti divenni il più grande cacciatore
e un giorno mi presi in sposa la figlia del capo NDAM.
La più furiosa fu la mia matrigna, che persa ogni speranza di sposarmi
non tentò più di favorire la morte rapida di mio padre.