I testi poetici e le raccolte

Alla scoperta dello Scrittore

Diceva il ministro della cultura Bernard Zadi: "In Costa d'Avorio c'éBernard Dadié poi tutti gli altri. Incontriamo lo scrittore.
La produzione poetica di Dadié è composta di tre raccolte:

Africa in piedi! Seghers, 1950,
La ronda dei giorni Seghers, 1956e
Uomini di tutti i continenti, Présence Africaine, 1967

Il contesto della produzione poetica

Sono stati pubblicati, in tutto, novantacinque poemi, scritti tra il 1943 e il 1965. Una produzione poetica molto estesa nel tempo se si pensa che Dadié scrive in un'età compresa tra i 26 e i 60 anni. Questo è spiegabile dal fatto che la formazione degli Africani rimasti in Africa fu più lenta di quella di coloro che partirono per seguire i loro studi in Francia. Un altro fatto da tener presente: le situazioni ambientali locali sono sempre state difficili, e spesso avverse agli uomini di lettere.
Lo scrittore Bernard Dadié con P. Silvano Galli

L'anima dell'opera

La Poesia di Dadié non è ancora stata oggetto di studi specifici. Le pagine a lui consacrate nelle antologie o nelle storie della letteratura africana di espressione francese, anche quando sono entusiastiche, sono spesso superficiali, frammentarie, e non prive di spiacevoli errori.
La poesia può essere considerata come l'anima e il nocciolo in cui si trovano tutte le costanti e i grandi temi delle sue opere.
La produzione poetica di Dadiè coincide con la battaglia politica, ovviamente, ma anche con la produzione della sua importante opera narrativa, e precede l'opera drammatica. Partendo dall'opera poetica si può facilmente tessere una ragnatela, sull'esempio di quella d'Ananzè, il Ragno, eroe dei racconti agni e delle storie di Dadié, dove le altre opere si disporranno in cerchi concentrici che rinviano senza tregua all'anima.

Poesia  come impegno

La poesia è per Dadiè soprattutto impegno verso sé stesso, verso gli altri; è in rapporto diretto con le situazioni sociali, con Dio, con la lingua.
Il suo contributo al Dibattito sulle condizioni di una poesia nazionale presso i popoli neri, metteva l'accento sul rischio che si corre nel voler rendere il poeta schiavo di una tecnica, di privarlo della sua qualità di creatore. Questa insistenza sulla necessità di creare, che ritorna così spesso negli scritti di Dadié, lo inducono a rifiutare la forma concepita come formalismo, quella che imprigiona il canto e paralizza il poeta, per augurarsi che ognuno si esprima nella forma che dà al suo canto più peso e più magia.
Dadié ricorda, poi, che lo stile poetico non può essere separato dalla testimonianza sull'attualità: se cambia l'attualità deve cambiare anche la testimonianza.

Una forma impegnata

Per Dadié, la poesia non può essere a servizio della liberazione dell'uomo se non è essa stessa liberata dalle costrizioni classiche. Tuttavia, per lui, il potere liberatore della poesia E per il potere di una parola
ricomincio la mia vita,

non si esaurisce in essa: deve proseguire nell'azione.
Dadié negli anni 40 riscopre in se stesso due stimoli: uno culturale, l'altro psicologico. Per il primo: Ero convinto, dice, che la forma di espressione degli antichi poeti d'Africa (i Cantastorie) è attualmente valida. (Il presente "è" che segna lo slittamento di "ero" - nel 1940 - a "attualmente" - nel 1967 - è un balzo significativo. Sottolinea la volontà di insistere sull'attualità continua di questa forma.)
E' l'ostacolo della lingua, l'impossibilità a quei tempi di scrivere in una lingua autoctona, che gli rese necessaria una nuova forma imparentata con la precedente. Più interessante è il fatto che egli sottolinea che questa forma di espressione ereditata è valida, non solo perché è la più adatta ad interpretare i bisogni e le aspirazioni del nostro popolo, ma anche perché è la forma più accessibile per esprimere la sua anima e la sua saggezza. E' evidente che Dadié intende dire che la sua poesia deve parlare, farsi capire dal suo popolo. Ribadisce questo principio quando aggiunge, a proposito della ricerca di una forma nuova imparentata a quella dei Cantastorie, che ciò implica che essa possa veicolare i sentimenti e gli ideali del popolo in una forma che sia digeribile per questo popolo. Infatti, Dadié, in questo dialogo, risponde alle domande che Sartre poneva nel 1947 in Che cos'è la letteratura? : Che cosa scrivere? Perché scrivere? Per chi scrivere? Ci si può evidentemente chiedere quale popolo abbia potuto, e possa ancora, fruire di tale poesia, dal momento che essa è scritta in francese.

Un contenuto liberatore

Ritorna sull'argomento rispondendo alla domanda: Perché scrivere? Riprende, in qualche modo, l'immagine del pendolo caro a Valéry nel trasporre largamente il suo discorso:
Valéry ha ragione di notare che all'origine del poema c'è, a volte, una forma che preesiste e aspira a un contenuto, a volte un contenuto che preesiste e che impone una forma. Quest'ultimo caso, è il mio. Questo contenuto, in me, cercava una forma precisa.

Per Dadié, questo contenuto che aspira a una forma, è nato dal sentimento di uno stato di cose eccessivo: rapporti sociali falsi e inumani, sfruttamento economico feroce, la menzogna che si è sostituita alla verità, la brutalità che domina, la violenza che regna, la morte degli uni che è la vita degli altri, tutte cose che si possono riassumere nell'eufemismo: regime coloniale.
Affermando che poesia e testimonianza si trovano nello stessa azione, Dadié vede il poeta, ossia se stesso, come un testimone che comunica l'esperienza umana collettiva ad un interlocutore dal quale deve necessariamente farsi capire, ad un pubblico al quale si rivolge; attore che assume come il mercante, il sapiente, il prete - tre termini in gradazione che descrivono l'umiltà e l'orgoglio -, la sua parte nella divisione sociale del mondo. Nello stesso tempo consolida l'impegno della sua poesia.
 

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