Allah ha così stabilito:
il calamo, da che è stato tagliato,
ha per schiava la spada,
da che è stata affilata.
Abd el Kader, Rappel à l'intelligent
Poeta algerino 1807-1883
Nel suo studio dedicato all'Islam del VII secolo, epoca nella quale fa la sua apparizione Maometto con la sua predicazione, André Miquel mostra bene quale fosse la situazione della penisola araba preislamica e le diverse componenti che hanno favorito il fiorire di questa religione.
Prima di tutto la grande espansione dei commerci poneva la regione dell'Hijaz (a ovest lungo il mar Rosso) in una posizione particolarmente favorita, punto d'incontro privilegiato delle carovane, con le sue città, Ta'if, Yathrib (Medina), e La Mecca fra le più ricche d'Arabia. In particolare quest'ultima, già meta di pellegrinaggi al santuario pagano della Ka'aba, diventava lo snodo vitale per le relazioni commerciali di quattro gruppi di paesi favolosamente ricchi: l'impero del Negus in Etiopia, i paesi del Mediterraneo bizantino, Ctesifonte e la Mesopotamia sassanide a nord-est, allo sbocco della pista centrale del deserto, e i più vicini popoli sedentari dello Yemen, aperti all'Oceano Indiano, all'India, alla Cina.
Così che oro, avorio, schiavi dall'Africa, spezie
e stoffe dall'Estremo Oriente, cereali e olii dal bacino mediterraneo, arrivavano nei
magazzini dell'aristocrazia meccana
attraverso i paesi dell'Arabia Felix che vi aggiungevano aromi e incensi, tessuti e armi,
raddoppiando i capitali investiti,
dando vita a una forte circolazione monetaria, creando un nuovo tipo sociale per l'epoca:
il mercante che era anche speculatore
e usuraio.
In secondo luogo, come è evidente, tutto ciò comportava un'intensa circolazione e movimenti
migratori da nord a sud, da sud a
nord della penisola che contribuivano a creare straordinarie possibilità di scambi di ogni
genere, ad amalgamare idee e genti e
a suscitare fermenti d'evoluzione e aspirazioni all'unità.
Ed infine la causa forse più importante, il fattore di base che permetterà l'intesa fra tutti
gli arabi e di conseguenza la
comprensione del messaggio coranico: l'unità della lingua.
L'alfabeto sud arabico, esportato verso il nord del paese dove aveva subito vari adattamenti,
aveva ceduto già dal VI secolo,
attraverso un lungo processo di trasformazione, a quella che poi sarebbe diventata la scrittura
araba, derivata a sua volta dalla
scrittura aramaica. Parallelamente, la comprensione e l'uso regolare dell'arabo parlato nelle
regioni centrali si estendeva,
attraverso gli scambi, al nord e al sud del paese, veicolando una cultura comune.
Questa parlata, più viva di una lingua ufficiale e più nobile di un dialetto, agiva con
una possente forza di coesione amalgamando
gli arabi con gli stessi concetti, valori ed ideali che rimanevano però quelli del deserto,
sfociando in quella che fu definita una
koinè poetica, un comune sentire. Ed è così che le grandi azioni, l'onore beduino, la virtù,
l'orgoglio di clan, l'ospitalità, i profondi
sentimenti di amore e di collera, la lode per il coraggio, per il cavallo o il cammello,
esplodono spontaneamente in una lingua
comune alla città e al deserto, mediante una magnifica fioritura di poemi lirici recitati
a memoria e non ancora scritti.(1)
I poeti, virtuosi della lingua di cui conoscevano tutte le sfumature e le intonazioni, si
sfidavano in gare pubbliche durante le feste paesane. La più nota era la fiera dell'oasi
di Okaz, nei pressi di Ta'if, dove la gente si riuniva per assistere alla recita delle
composizioni poetiche, le migliori delle quali venivano poi premiate e appese ai muri della
Ka'aba, alla Mecca. Pare che, da
questa massa di canti preislamici, i commentatori abbiano selezionato sette poemi, considerati
capolavori e passati alla posterità
con il nome di Mo'allaqat, i Sospesi.
Questo gusto creativo ed estetico, questo amore di tutto un popolo per la bellezza e la
magia della propria lingua, divenne
il mezzo perfetto mediante il quale il Profeta Maometto poté trasmettere ai suoi seguaci
la forza della fede in un unico Dio,
innalzandoli a un livello spirituale molto superiore alla "cultura" del deserto.
"Il Corano, rimarca Atiyah, fu enunciato da Maometto oralmente, in versetti che avevano
il ritmo maestoso e la risonanza della poesia e, non di rado, la fantasiosa bellezza e
il fascino potente delle creazioni poetiche." Il Profeta infatti componeva versetti quando
era ispirato dalle visioni che gli si presentavano e i suoi fedeli mandavano a memoria
quello che diceva e questa consuetudine di memorizzare la poesia ha permesso di tramandare
il Corano nella sua forma originale e di trascrivere, quattro o cinque anni dopo la sua
morte, ogni parola uscita dalle sue labbra "fosse essa scritta su foglie di palma, strisce
di cuoio, lamine d'osso, tavolette di pietra o nel cuore degli uomini".(2)
Si racconta che fosse abitudine del Profeta lasciare i luoghi di ritrovo e ritirarsi sulle
montagne per stare in preghiera e meditazione. Una notte l'angelo Gabriele venne a lui con
un panno di broccato di seta su cui erano scritte delle parole e gli disse:"Recita!" Egli
rispose:"Cosa recito ?". L'ordine venne ripetuto tre volte, mentre egli sentiva crescere
un'oppressione fisica, finché l'angelo gli disse:" Recita nel nome del tuo Signore che creò
l'uomo da un grumo di sangue. Recita! Ché il tuo Signore è il Generosissimo. Colui che ha
insegnato l'uso del calamo ha insegnato all'uomo ciò che non sapeva". Quando egli si svegliò
queste parole sembravano essere scritte nel suo cuore. Gli venne il dubbio di essere uno shair,
un "posseduto".(3)
Una delle più antiche Sure meccane, la 68, quella del Calamo, così inizia:"Nun. Per la penna
e ciò che scrivono gli angeli!. Per grazia del tuo Signore tu non sei pazzo. Avrai certo una
ricompensa che non verrà mai meno. E certo sei di indole nobilissima. Ben presto vedrai e
vedranno i miscredenti, chi di voi sia il dissennato."(4)
Il calamo assurge così a simbolo della parola di Allah che si manifesta e si materializza
nel Libro, esso è l'intermediario supremo della Intelligenza universale che gli angeli
utilizzano per scrivere i segreti della "Tavola ben custodita" tanto che negli Annali di
Al-Tabari si dice che Allah creò il Qalam mille anni prima di creare le altre cose.
Il Libro Sacro viene considerato come increato, esistente "ab aeterno" presso Dio.(5)
Quando gli Arabi si lanciarono alla conquista del mondo, lo poterono fare anche perché erano
sostenuti dal senso di unità e di
fiducia in se stessi e da una fede trascendente che li accomunava nella sete di nuovi
orizzonti, elevandoli al di sopra dell'antico
amore del beduino per la razzia e la conquista, pronto a rischiare la vita per pochi cammelli.
La roccia su cui poggiava la loro
forza, la chiave del regno dei cieli, era il Libro sacro, il Corano, e chi cadeva in battaglia
aveva le porte del paradiso pronte ad accoglierlo.
Molto opportunamente è stato detto che la civiltà araba e l'Impero furono il
prodotto comune della religione mussulmana e della lingua araba.(6)
Ma questo fiume in piena che dall'Arabia settentrionale invade l'Asia, il Mediterraneo e
l'Africa settentrionale fino al Marocco,
porta con sé, oltre alla religione e la lingua araba, il limo fertile della libertà
anarchica del beduino, bizzarro connubio di grandezza
d'animo e sottile astuzia, che infrange e rimescola le frontiere delle società e delle
culture stagnanti ed è a sua volta fecondato dalle molteplici influenze del mondo che
va conquistando, a cominciare dalla tradizione giudaica, dalla filosofia greca, dal diritto
romano, dall'arte bizantina fino alla scienza persiana, alla teologia cristiana, dando
luogo, nel corso dei secoli, alla magnifica fioritura del rinascimento arabo.
Quel fiume, partito da oriente, frena la sua corsa nelle sabbie del deserto all'estremo
occidente, si inabissa e per le segrete cavità sotterranee arriva nel cuore dell'Africa Nera.
Già dal III secolo le carovane berbere commerciavano fra le due sponde
del Sahara ma, con la conquista araba del Mahgreb e con l'islamizzazione più o meno parziale
dei berberi, si mette in atto quello straordinario dinamismo e quell'intensa circolazione
di scambi commerciali e culturali che caratterizzerà tutto il Medio Evo.
Tale fenomeno interesserà tutti gli strati sociali
riproponendo nella familiare culla del deserto sahariano quella medesima situazione
di fervore operoso e di ardite conquiste che aveva generato la ricchezza e il risveglio della
nazione araba.
Nell'VIII secolo, l'impero soninké del Ghana, con capitale a Koumbi a sud della Mauritania,
respinge un' invasione araba e conquista a sua volta la città berbera di Awdaghost, importante
tappa del commercio transahariano.
Ma è solo all'inizio del millennio che il Corano
penetra nel Tekrour: un gruppo di fedeli mussulmani fonda un ribat,
una fortezza monastero, per diffondere la nuova religione in questa parte del Senegal del
nord confinante con la Mauritania.
Questi preti-soldato chiamati "al morabethin", quelli del ribat, diventano famosi come
Almoravidi perché, dopo essersi
impadroniti di Awdaghost, conquistano l'impero del Ghana seminando il terrore nell'intera
regione. Pur avendo mantenuto
il potere solo per pochi anni, gli "al morabethin" hanno lasciato all'Africa un'eredità
che perdura tuttora: i marabutti.
Questi maestri di scuola coranica, questi "uomini santi", hanno cercato fin dall'inizio di
costruire un ponte fra una religione
basata solo sul Corano, che bandisce ogni forma di materialità e di rappresentazione di Dio,
che tende alla pura astrazione e al misticismo, e la tradizione africana.
Quest'ultima considera invece l'universo come il Mondo della Parola che Dio ha pronunziato
per creare ogni cosa, la manifestazione che costituisce per l'uomo un libro pieno di segni,
di simboli, di cui bisogna decodificare il messaggio per potersi integrare all'ordine e
all'armonia, al ritmo della natura. L'uomo che sa, dicono i Dogon, è "colui che conosce
la parola" e che la tesse "da bocca a orecchio" mediante una trasmissione orale che dipana
lungo le generazioni il filo ininterrotto del sapere.
(7)
Non a caso l'islamismo ha attecchito prima nelle regioni del Sahel e fu praticato per molto
tempo da piccole minoranze etniche come i nomadi del deserto o da determinate categorie
sociali come gli imperatori del Mali e i dignitari che potevano effettuare
il pellegrinaggio alla Mecca e solo nel XIX secolo conquistò, anche grazie alla spada di El
Hadj Omar, la maggioranza delle popolazioni sudanesi.
Ma la vera questione è un'altra: Come a Damasco avevano conosciuto per la prima volta la
cultura greca, così gli eruditi arabi venivano a contatto, nelle città universitarie
che sorgevano nel Sahara e nel Sahel, con l'immenso patrimonio culturale
di quello che si può definire la "mezzaluna fertile" africana che per millenni era stato uno
straordinario "melting pot" di uomini
e culture.
E, un millennio fa, quale può essere stato l'impatto fra una cultura araba scritta, che
dominava la cultura mondiale del Medio Evo e quella della tradizione orale africana,
dei soninkè, dei tuaregh, dei malinké, dei bambara, dei fulbe, dei dogon,
dei serer, dei wolof, dei mossi, dei songhai, per nominare solo pochissime etnie, che avevano,
come sappiamo, una precisa concezione dell'universo, del Dio unico creatore, della società,
della persona e della sua finalità e una ricchezza di miti, di leggende, di simbologie,
di riti, di società iniziatiche, oltreché di sapere e conoscenze occulte che venivano
gelosamente custodite?
La risposta si trova probabilmente nei manoscritti che giacciono nelle viscere del deserto
come tesori sepolti nell'oblio.
1) A.Miquel, L'Islam et sa civilisation, Colin, 1968, 32/40.
2) E. Atiyah, Gli Arabi, Universale Cappelli, 1962, 25/27.
3) Guillaume, Islam, Cappelli, 1961.
4) Il Corano, traduzione M.Guzzetti, Elle Di Ci, 1993, 334.
5) F.Gabrieli, La letteratura araba, Sansoni, 1967, 85.
6) Atiyah, op. cit. 26/38.
7) G.C.Griaule, Il Mondo della Parola, Boringhieri, 1982, 27.