La concezione di Dio


La ricchezza del patrimonio religioso e culturale dell'Africa si manifesta nella maniera in cui i popoli concepiscono Dio e vivono la loro relazione con l'Essere Supremo. In effetti è diventato banale affermare che i popoli africani hanno un altissimo concetto di Dio. La Missione non ha portato Dio all'Africa; da tempi immemorabili Egli era affermato e adorato come il Supremo, l'Unico il cui nome personale non tollera il plurale, il Possente senza eguali, infine il Vivente che pur senza padre né madre né progenie, è non dimeno la Fonte e il Garante dei viventi.

L'essere umano e il suo Signore
Il culto reso al Supremo dagli uomini era, alla maniera del mistero stesso di Dio, discreto e impenetrabile, a tal punto che gli osservatori stranieri hanno creduto che il Dio degli africani fosse un deus otiosus, un dio pigro, sfaccendato. Una migliore conoscenza dei miti, dei riti, dei nomi teofori, dei racconti, dei proverbi, delle preghiere relativi a Dio, rivela una ricchissima percezione della relazione specialissima che lega l'essere umano al suo Signore.

Il Dio dei cristiani e il Dio degli Antenati
É vero che gli africani non hanno generalmente costruito dei templi a Dio, né moltiplicato i sacrifici cruenti al Supremo Vivente, come se Egli, essendo ciò che è, non ne avesse mai avuto bisogno. È pure vero che l'adorazione si traduceva in una distanza che faceva di Dio non un parente né un familiare dell'essere umano, ma il Totalmente Altro, che non interviene negli affari dell'uomo, finché la sua vita e il suo destino non sono direttamente minacciati. È dunque inconcepibile per una tale mentalità che Dio possa incarnarsi nella condizione umana. In definitiva la trascendenza di Dio appare in questa doppia convinzione che: — Dio non ha residenza sulla terra. Non esiste propriamente una “Casa di Dio” in questo nostro mondo. — Dio non impone un culto particolare all'uomo; non esiste, propriamente parlando, un culto divino organizzato e richiesto dal Supremo.

Mistero di Dio e mistero dell'uomo
Nella pietà popolare del cattolicesimo africano si ritrovano alcuni dei tratti principali del Dio ancestrale. Molto spesso invocato e preso a testimone nelle situazioni difficili (Dio te lo contraccambierà! Che Dio te lo renda in benefici! Dio solo sa! Perché, Dio, mi hai abbandonato? È Dio che l'ha voluto!), Dio non è considerato come la causa dei nostri guai quotidiani, ma come il Signore ultimo del destino dell'uomo. Fatalismo? Si tratta piuttosto della rassegnazione di fronte al mistero impenetrabile del destino umano: perché si nasce? Perché si soffre? Perché si muore? Dove si va dopo la morte? Tante domande angoscianti che trovano il loro acquietamento, se non la loro risposta, nella sottomissione a un Signore Supremo delle esistenze che dirige tutto secondo la sua volontà. Poiché, come amano dire i mosi, l'etnia più numerosa del Burkina Faso: “Se Dio non uccide, neppure il re può uccidere”. Il cristiano è fermamente convinto che ogni uomo ha il suo destino deciso e guidato da Dio.

Un Dio vicino e importuno?
A questa visione delle cose è venuta a sovrapporsi l'immagine cristiana, o piuttosto giansenista, di un Dio gendarme che sorveglia e spia i minimi fatti e gesti dell'uomo, per ricompensarli o punirli. Tale concezione, per molto tempo trasmessa dai catechismi, ha condotto molti cristiani a interpretare le prove della vita come castighi divini. Pretendendo di riavvicinare Dio agli uomini per introdurli nella sua intimità, forse sì è traumatizzata la coscienza popolare per mezzo della paura del Dio cristiano simbolizzato dalla bilancia della sua giustizia. È questo uno dei paradossi dell'evangelizzazione: aver sostituito l'immagine di un Dio “lontano” e “discreto” con quella di un Dio “vicino” e “importuno”.