Dobbiamo ora esaminare da vicino la ragione che ha provocato la controversi, cioè l'origine schiava, vera o presunta, dell'antenato del capo di Guiendé, Kvadio Fiéni Abronkoua. Atta Koffi si difende esplicitamente d'aver affermato che Fiéni era un kanga, uno schiavo degli Abron. Il nome Abronkoua sarebbe un soprannome dato a Fiéni dai suoi cittadini, vista la sua assiduità alla corte abron. Le stesse ragioni sono state date da suo padre Tano Koffi e Joseph Atta Kwadio.
Gli anziani di Broukro si sentivano in dovere di immortalare i loro antenati. Non hanno il diritto di presentare il lato
negativo della loro storia. Come sottolinea Perrot, possono essere pubblicate solo le belle azioni e le qualità
degli antenati, mai le loro sventure, i loro errori, poiché ricordare ciò sarebbe un ostacolo al rispetto dovuto
alla loro memoria: così tutto ciò che può offuscare il loro ricordo, scompare dai racconti storici. (1)
Questi anziani di Broukro non sono stati ispirati dagli stessi sentimenti, ossia dalla preoccupazione di difendere
la memoria dei loro antenati da ogni tara di schiavitù?
Può darsi che i due informatori, così come Atta Koffi che ha avuto da suo padre la maggior parte delle notizie,
abbiano fornito “la tradizione ufficiale” senza alcuna intenzione di mentire, la tradizione che è l'unica ad aver diritto
di cittadinanza, può darsi anche la sola che conoscono.
Se ci si attiene unicamente a queste testimonianze, non ci sono elementi sufficienti per escludere che il soprannome
Abronkoua non sia dovuto alle origine di schiavo di Kwadio Fiéni. Il nome rimane un indizio. Bisogna allora cercare
altrove.
Quando si parla di origini schiave, non si vuole necessariamente significare che Fiéni fu un vero schiavo, un kanga.
D'altronde la terminologia bona, a questo riguardo, è rivelatrice.
Ci sono due parole per designare gli schiavi: akoa e kanga. Si parla di kanga per significare che la
persona in questione è stata acquistata da un padrone con della polvere d'oro.
Questa persona diventa di sua proprietà.
Ma Fiéni non è chiamato kanga ma akoa. Che cosa significa questa parola?
C.H. Perrot afferma che akoa è la vecchia parola anyi per significare schiavo. Termine che, in tempi più
recenti,
è stato sostituito con kanga. Per Perrot i due termini kanga e akoa sarebbero equivalenti. (2).
Ma può darsi che non lo siano!
Questo stesso autore, in una comunicazione au colloque di Bondoukou sugli Akan, attribuisce alla parola akoa
un significato molto più ampio di quello di kanga, o di schiavo acquistato.
Parlando di Ano Asseman (L'eroe culturale di tutto il gruppo anyi) che aveva preso le sue distanze riguardo
al potere centrale Danguila, Perrot riferisce questa testimonianza di nana Alou Méa, capo di Kwadiokro:
Il Denkyirahene (3) commande Eborosa (4). Ma siccome fa sempre la guerra, il re d'Eborosa si è ritirato de son còté. Dice: (5) Amalama (6) va con la tua gente a vedere che ne è stato del re d'Eborosa. E' partito e non è più tornato.
Quando arrivarono, egli (7) disse: “Tu, se hai piacere di essere akoa (e l'autore mette fra parentesi: dipendente, schiavo), va, va laggiù perché ti si possa uccidere”. Egli dice: “Nana, io non ci ritorno”. (8) Ecco perché si pronuncia sempre il suo (9) nome. (10).
La frase importante per il nostro ragionamento e questa: “se hai piacere di essere akoa, va, va laggiù per essere ucciso”. Nel contesto, la parola akoa non significa schiavo acquistato, ma piuttosto schiavo nel senso di servitore, dipendente, vassallo. Ano Asseman risponde agli ambasciatori di Dim Gyakari, re di Denkyra che, se ritorna a corte, perde la sua libertà, la sua indipendenza, diventando akoa del potere centrale. L'akoa non è dunque colui che è acquistato da un padrone, ma colui che si mette alle dipendenze di un altro, di sua iniziativa, o per altre ragioni (11).
In cambio della sua sottomissione e dei suoi servizi, riceve accoglienza, protezione, favori, ma perde la sua libertà
e la sua indipendenza.
Una volta entrati nel cortile del padrone, gli akoa (o i loro figli) e i kanga (o i loro figli), si trovano fianco a fianco e,
a volte, condividono le stesse mansioni. Ecco perché può esserci una certa confusione possibile nella terminologia.
Possono esserci diverse ragioni perché un vassallo entri nel cortile di un padrone (12).
Non erano unicamente le persone di ceto inferiore che si legavano a dei padroni. Anche famiglie dirigenti potevano trovarsi
in condizioni tali da vedersi costrette a sollecitare un “salvataggio”.
Il modo più semplice e meno oneroso per essere ammesso alle dipendenze di un padrone, era questo. Un abusuan
(13) recentemente arrivato su un luogo già occupato, chiede il permesso di potervisi insediare.
I nuovi arrivati erano abitualmente ben accolti, poiché il prestigio e la ricchezza di un capo veniva misurata non
tanto per l'estensione dei suoi terreni o per l'importanza dei suoi beni…bensì dalle persone raggruppate attorno
a lui e quindi per il lavoro e i servizi resi (14).
In questo primo caso, i legami tra il padrone e i dipendenti erano molto deboli. Questi ultimi potevano anche
avere una certa autonomia politica, con propri capi, ma con poteri subordinati al potere centrale. Si può prendere
come esempio il caso dei Boba in rapporto agli Abron.
Ma non era raro il caso in cui un abusuan potesse trovarsi in serie difficoltà, sia per debiti contratti, sia per altre
ragioni. Questo abusuan per risolvere i suoi problemi poteva dare in pegno sia un membro della sua famiglia,
sia il suo seggio ancestrale, e ricuperarlo in momento più favorevole.
E' quanto è capitato a kwadja bia, il seggio ancestrale dei Samo, un gruppo bona di Koun Abronso.
La famiglia guida di questo gruppo aveva debiti considerevoli e insolvibili. Per poter ricuperare l'oro necessario per
pagare i suoi debiti, ha dato in pegno il suo seggio ancestrale all'abusuan sianghi di Tiédjo.
Questo seggio ha potuto essere recuperato in seguito, grazie al un legame matrimoniale e al rimborso del debito.
Una figlia del capo di Samo (15) aveva sposato un membro della famiglia sianghi. Fu il loro figlio, Koffi Kossonou
che recuperò il seggio (16).
Sarà forse successo qualche cosa del genere tra la corte regale abron e la famiglia guida di Broukro? Non ci sono
elementi sufficienti per affermarlo, ma ciò non sarebbe improbabile. Ci si limita a mostrare il percorso possibile
per legarsi ad un padrone, senza poter specificare il cammino intrapreso da Fiéni.
Il posto di safoehene occupato da Fiéni e dai suoi successori, è un altro indizio in favore di Fiéni Akoa.
Le attività assunte dai kanga erano diverse da quelle dei clienti, degli akoa.
Si può dire che i compiti dei veri schiavi erano piuttosto intimi, all'interno della corte del padrone; non erano mai
di ordine militare, per esempio. Dagli studi di Perrot sulle corti anyi, non si trovano dei kanga con funzioni militari
importanti. Per esempio il compito di safohene, o di capo della guerra. Questi schiavi potevano avere grandi
poteri, ma quasi sempre all'interno della corte, di fianco al padrone.
Coloro che non erano kanga potevano, al contrario, occupare posti di prestigio, sia presso gli Abron sia presso gli
Ashanti. Il loro statuto era sostanzialmente diverso. Queste persone potevano, per esempio, arrivare ad esercitare
il compito di safohene, di luogotenente. Ed è giustamente questo nome che la tradizione utilizza per Fiéni.
Di solito gli akoa non abitano nello stesso cortile del loro padrone o dei nobili. Sono dei “plebei”, sono liberi,
dunque né kanga, né abuluwaa, né awulobaa. Non sono di origine nobile ma lavorano per una
famiglia nobile, senza però abitare nello stesso cortile, come gli schiavi .
Prima di concludere questa analisi, bisogna esaminare un ultimo elemento. Se ci si attiene al racconto classico
della scoperta dell'igname, dell'assaggio da parte di Fiéni, come è nata l'ipotesi dell'origine schiava di Fiéni?
Questa non perde nulla della sua probabilità, al contrario, ne esce rafforzata.
Al termine di quest'analisi si può concludere schierandosi dalla parte di Atta Koffi. Con molte probabilità,
si esclude che Fiéni fosse un vero schiavo, un kanga. Ma se si da al termine schiavo il significato più esteso di
dipendente, ci si può trovare d'accordo.
1) C.H.PERROT, L'istoire dans les royaumes agni de l'Est de la Còte d'Ivoire, Annales, Economies,
Sociétés, Civilisations, Paris, 1970, n. 86, 1665-67
Alcuni dicono, giustamente, che il re degli Abron ha potuto obbligare Fiéni a mangiare il tubero, perché costui
era un suo schiavo. In questo contesto il fatto di essere schiavo darebbe una spiegazione naturale e molto solida,
legata alle usanze.
Un capo, un anziano, o più semplicemente uno straniero, non assaggerà mai per primo una bevanda che gli viene
offerta. Sarà sempre colui che offre, o un inferiore che l'assaggerà per primo .
Il re degli Abron avrebbe dunque seguito questa usanza ancestrale. L'avrebbe seguita facendo assaggiare il
nuovo cibo al suo akoa Fiéni.
Schiavo o no?
Fiéni Abronkua non sarebbe uno schiavo acquistato dal re degli Abron, ma qualcuno entrato a far parte della
corte del re in seguito a circostanze non sufficientemente conosciute. In questa prospettiva si comprende
il soprannome che gli è rimasto, e il posto occupato nel regno.
Se Fiéni fosse stato un vero kanga , non avremmo forse impiegato ogni mezzo per nascondere le sue origini,
invece di divulgarle dappertutto durante tutti questi anni?
2) C.H. PERROT, Hommes libres et captifs dans le royaume agni de l'indénié, Cahiers des Etudes Africaines, 29, 1969, 484.
3) Denkyirahene: capo dei Denkyra, dunque il re. Poiché la frase è una citazione viene rispettata la grafia dell'autore.
4) Eborosa: la città dove Ano Asseman viveva con i suoi. Questa città era situata nella circoscrizione amministrativa di Enchi, a sud ovest della repubblica del Ghana.
5) Il re di Denkyra, Dim Gyakari.
6) Amalama è il capo di una frazione anyi ndénié. “I suoi abitanti”: gli ndénié.
7) Il: Ano Asseman.
8) Presso il re Dim Gyakari.
9) Il nome di Ano Asseman.
10) Allusione al fatto che il nome di Ano Asseman è pronunciato molto spesso in tutti i gruppi agni.
Per indicare che un avvenimento è capitato molto tempo fa, si dice: “Fin dal tempo di Ano Asseman “.
Questa espressione è comune a tutto il gruppo anyi come hanno permesso di costatarlo dei sondaggi fatti sia ad Aboisso
(Anyi Sanwi, sia ad Arras (Anyi Moronou), sia a Ndakro (Anyi Bona)
11) Così dimostrano le testimonianze raccolte. Per spiegare il significato della parola, un anziano diceva:
“I cristiani del villaggio sono i tuoi akoa, perché tu hai potere su di essi, tu sei akoa di Monsignore, Monsignore è akoa del Papa così come tutti i cristiani”.
12) C. H. PERROT fornisce questa spiegazione: “accogliendo gli indesiderabili cacciati dal loro villaggio o dalla loro
famiglia perché resisi insopportabili a causa della loro condotta: giovani indebitatisi a più riprese e che non avevano
pagato i debiti, oppure baye (stregoni o accusati di aver ucciso durante una stregoneria )”.
C. H. Perrot, Hommes libres et captifs, cit.483
13) Una grande famiglia.
14) C. H. Perrot, ib.482.
15) Questa ragazza è diventata, in seguito la nonna materna di Monsignor Eugéne Abissa Kwaku, primo vescovo
di Abengourou, dal quale abbiamo le informazioni.
16) Perché una chefferie dia come pegno il suo seggio, il bene più sacro dell'abusuan, deve veramente trovarsi in una situazione disperata e senza uscita. Quando un abusuan si rivolgeva ad un altro abusuan chiedendogli in prestito del denaro,
si metteva in una posizione di inferiorità cioè di dipendenza. Quando la situazione diventava talmente grave e l'abusuan
non poteva più tener fede ai suoi impegni, il suo capo non esitava a dare in pegno i più preziosi beni ancestrali, l'adia bia.
Come fa notare Perrot “rinunciando a l'adia bia che aveva ereditato, l'abusuan rinunciava a far valere la legittimità dei suoi diritti: a disporre della parte di territorio che gli era stata precedentemente concessa e a comandare gli uomini che vi vivevano. Era in qualche modo la fine della sua autonomia politica, scomparire come gruppo originario per diventare le vassallo di un nuovo padrone. L'adia bia dell'abusuan debitore diventava di proprietà dell'abusuan creditore, nella bia sua (stanza dei seggi) di quest'ultimo.
Cf. C.H. Perrot, Gli Anyi Ndénié e gli Ashanti, Communication au colloque sugli Akan, Bondoukou, gennaio
1974, 13-14.
17) Qual è l'origine di questa usanza? La stessa che ha spinto il re degli Abron a non assaggiare per primo il tubero,
cioè la paura di essere avvelenato. Originariamente era questa la vera ragione. Ma gli intenditori trovarono il mezzo per
raggirare l'ostacolo. Dopo aver versato e bevuto davanti a tutti la bevanda nella calebasse, prima di offrirla si immergeva
il pollice nel liquido, avendo cura di mettere sotto l'unghia del dito del veleno o anche, dopo aver bevuto, prima di allontanare
la calebasse dalla bocca, si sfregavano i baffi nella bevanda facendovi cadere il veleno.
18) Nei villaggi tutti sono a conoscenza delle origini servili di ogni persona. Ma nessuno ha il diritto di parlarne
pubblicamente. E' una delle maggiori ragioni di reticenza durante le inchiesta in questo campo. Non si ha il diritto
di rivelare le origini vili di una persona, se lo si facesse pubblicamente, per esempio, durante una discussione, questo
comporterebbe una denuncia al capo villaggio. Spesso per lavare l'oltraggio viene sovente chiesto un bue.