Come vedo l'Africa

Chi scrive un tempo era un professore di filosofia, che, quasi vent'anni fa, lasciò scuola e allievi, Platone e registri per salire su di un camion di dieci tonnellate con il muso puntato verso sud. Da allora ho trascorso nel continente africano quasi quindici anni. Sono andato avanti e indietro, l'ho attraversato da nord a sud, fermato e talvolta arrestato dai guerriglieri in rivolta dei vari stati o dai servizi segreti, predoni coperti con diverse divise, ma animati dalla stessa ferocia.
Ho ripercorso il calvario di dolore delle vie degli schiavi dal Tanganika a Bagamoyo, sulla costa della Tanzania, ultima tappa prima di essere imbarcati per il mercato di Zanzibar.
A Bagamoyo, che significa "lascia il tuo cuore" ho visto gli anelli delle catene degli uomini neri. Qui ho pianto di vergogna e di dolore e ho sperato che Tyson, discendente tormentato di schiavi africani picchiasse ancora più forte, orgoglioso di essere nero.
In quello che era allora Zaire, ho percorso in chiatta il grande fiume Congo, il fiume delle tenebre di Conrad, duemila km di strada liquida immersa nel verde fosforescente della più grande foresta pluviale africana. E' stato un viaggio nel cuore dell'Africa e nei recessi più profondi dell'anima umana, nelle caverne oscure dove si cela l'Ombra, ovvero la nostra più intima identità ancestrale di predatori assassini.
Ho vissuto con i Boscimani, gli ultimi cacciatori che non conoscono proprietà privata, massacrati e sterminati dalle recinzioni di filo spinato e dalle pallottole boere. Ho assistito pieno di meraviglia alle loro trance, ai viaggi di guarigione e di scoperta attraverso lo spazio e il tempo, dalle quali i saggi ritornavano per dipingere sulle rocce dinosauri, che non avevano mai visto in questo nostro tempo.

Ostacoli da superare e strada da percorrere

Un triste giorno ho dovuto lasciare il camion, rovesciato su di un fianco come un elefante morente. Era saltato su una mina cubana ai confini dell'Angola, allora in guerra con il Sud Africa. Ma il dio dei viaggiatori era con me, perché mi ha lasciato la vita e qualche frattura, prendendosi però tutti i miei averi e la mia casa viaggiante. Seduto sulla pista, con il sangue che colava dalla fronte e la schiena rotta, appoggiato alle ruote del mio colosso dalle zampe spezzate, ho pianto smarrito, chiedendomi tra le lacrime che colavano sulla barba, se quello non fosse un preciso segnale della vita per cambiare strada e continente. Poco lontano nel bush c'era la capanna di Antonio, un disertore portoghese che si era rifiutato di combattere contro il movimento nero di liberazione.
Antonio allontanò con il suo machete i predatori che mi stavano svuotando il camion, mentre io barcollando cercavo di oppormi. Antonio mi salvò la vita, mi fece dormire sul suo letto perché le costole rotte ululavano, mi fasciò la schiena e l'anima e mi disse, quella lunga notte, che tanto più alto è l'ostacolo da superare, tanto più lunga si stende la strada che l'ostacolo nasconde.
Due anni dopo tornai a cercare Antonio per regalargli il mio libro sulla Namibia che era appena uscito, ma non lo trovai: il vento sbatteva la porta della sua capanna abbandonata.

La scoperta del Vodoun

Ma Antonio aveva ragione, a proposito delle strade e tutto il resto. Qualche anno dopo, avrei spento il motore del fedele Toyota, la mia nuova casa itinerante in Africa, e lasciato momentaneamente le piste polverose. Mi sarei avviato a piedi, lungo i sentieri, difficili e solitari, privi di segnali stradali e immersi in paesaggi sconosciuti, del Vodoun africano.
In quel viaggio, ho conosciuto Mami Wata, la divinità vodoun del mare e della vita, ho visto danzare Hevioso, il dio del fulmine e del fuoco, ho sentito ruggire Ogoun, il dio del ferro e della guerra, ho toccato Shapanan, il Vodoun della malattia e del vaiolo, ho preso un cazzottone da Kokou, Vodoun irascibile e guerriero che ama essere rispettato. Ma i Vodoun mi hanno tutti abbracciato, perché dicevano che il bianco era un po' matto, ma coraggioso e pulito e che il suo lavoro avrebbe fatto conoscere il loro mondo dall'altra parte del mare. Per questo, loro erano contenti, molto contenti e mi avrebbero aiutato, dandomi la forza e l'energia per sopportare le tremende esperienze e per portare avanti un progetto che mi ha svuotato corpo ed anima, privandomi della mia bussola culturale e delle mie certezze: perché non è facile resistere al richiamo degli archetipi e alle potenti onde di energia di decine di fedeli in trance, cavalcati dai loro Vodoun, nel nero buio delle notti africane.
Nel lungo viaggio nel Vodoun africano, ho aperto finestre su mondi sconosciuti, finestre che ora non posso più chiudere e da queste entra un forte vento che scompiglia le mie carte e i miei libri di filosofia occidentale. Ogni tanto, ricevo strani visitatori che non posso rifiutare, anche se la mia anima è spaventata perché è piccola e stupida e ha paura di fronte ai misteri della vita e dell'universo. Ma, come scriveva Orazio, Caelo tonantem credidimus Jovem regnare: crediamo a Giove regnante quando lo sentiamo tuonare in cielo.

Il mal d'Africa

Ad ogni mio ritorno a casa, aumenta la consapevolezza del baratro che separa i luoghi comuni dalla realtà africana che vivo.
Qui si lacrima per i bimbi africani quando sono lontani e quando non li abbiamo in casa. Trasmissioni televisive intervistano grandi "viaggiatori" che si muovono con la scorta, il parrucchiere e il truccatore.
Sono scandalosi i servizi "giornalistici"sulla Parigi-Dakar, in cui si spaccia per avventura una costosissima traversata supertecnologica, con i piloti che riposano nell'aria condizionata, mentre squadre di meccanici passano la notte a cambiare motori, ammortizzatori e carrozzerie.
Ho visto le montagne di spazzatura non degradabile lasciata dal convoglio, ho visto bimbi amputati e azzoppati, animali massacrati e travolti da vetture e camion, che attraversavano villaggi e pascoli a velocità folle. Li seguiva il "liquidatore", che zittiva lamentele e soffocava lacrime di dolore con montagne di monetine, in cambio di firme stentate su pezzi di carta scritti in francese legale.

La mia Africa

La mia Africa non ha tramonti rossi, ma ha il colore rosso vivo di una piaga lebbrosa sul braccio di un bimbo di tre anni, che se guarirà potrà sbattersi tutta la vita a cercare un lavoro che non c'è. Ma se sarà fortunato, entrerà clandestino a farsi umiliare, vendendo cianfrusaglie lungo i nostri marciapiedi.
Nella mia Africa i tamburi non suonano perché le termiti li hanno divorati, nel silenzio lugubre dei villaggi del Congo sterminati da massacratori in tuta mimetica, chiamati legionari.
Nella mia Africa l'Aids taglia le vite come una motofalciatrice, con il sottofondo musicale delle mitragliatrici e delle cannonate delle perenni guerre civili.
Nella mia Africa si muore di fame e di dolore, di povertà, di schiavitù, di lebbra e di malattie, che non si curano, perché non si può pagare la medicina, che costa come una nostra birra.
Io ho il mal d'Africa: perché, quando ci vado, la vedo e la sento e la vivo e sto male.
La mia Africa è torturata, è malata, è sofferente, anche se è fatta di scrittori geniali, di eccezionali musicisti, di grandi atleti, di intellettuali profondi, di filosofi acuti e di splendide indossatrici. Ma sono, come diceva Aristotele, delle "potenze"che mai potranno attuarsi, che mai nessuno conoscerà perché non hanno potuto sviluppare le loro doti, perché il mondo dei poveri è come la notte della filosofia di Hegel, talmente buia che tutte le vacche sono nere. Come fa un narratore geniale a scrivere storie se non è andato alla scuola (che non c'è)?
E come si può fare poesia con la pancia contratta dai crampi della fame?
Come fai, se hai un po' d'orgoglio e la morte nel cuore, a lasciarti fotografare sorridente da turisti coperti da immacolate sahariane e dai calzini bianchi, che interpretano il rifiuto come il timore che la macchina fotografica catturi la tua anima?
Loro non sanno che nella capanna del selvaggio nero, muore il bambino dissanguato dalla dissenteria. Il pianto non si sente perché il bimbo sta morendo all'africana. Discretamente e silenziosamente, quasi vergognandosi di disturbare, rantola sulla terra battuta dove sono stati sepolti gli Antenati, che presto raggiungerà nell'umido abbraccio di madre Africa. L'infezione è stata provocata dall'acqua sporca mescolata con il latte artificiale: per gli interessi di grandi multinazionali, interessati cooperanti hanno insegnato alle donne africane che era meglio dare il latte in polvere ai loro bimbi al posto dei loro seni morbidi e straboccanti. Il latte in polvere è meglio perché è il prodotto della più avanzata società dei bianchi.
Sui disastri e sulle infamie di certa cooperazione, è meglio stendere un velo pietoso: rubare ai più poveri della terra è un crimine orrendo.