Ma l'Africa, maciullata, massacrata e torturata, l'Africa è ancora splendida e splendente, è ancora
piena di fascino e di mistero.
E' una donna bellissima, sopravvissuta a prove dolorose, a sadici stupri e a violenze tremende, che
hanno ucciso altri popoli meno forti ed ottimisti. E' Eva primordiale e sensuale, che ha incantato
Adamo tanto da fargli dimenticare gli ordini di Javhè. L'Africa è piena di voglia di vivere e di
cantare, di giocare e di fare all'amore. L'Africa ha molto insegnato alle avanguardie europee del
novecento, che hanno copiato a man bassa, senza citare la fonte.
L'Africa ha insegnato scultura, colori, tessuti, ritmi, musica e danze al mondo intero. Pensate che se
i Brasiliani non fossero discendenti degli schiavi africani, potrebbero danzare come danzano?
Anche nei lebbrosari della Costa d'Avorio, i piccoli pazienti ballano sui loro moncherini e sulle
gambette anchilosate dal male dei poveri.
Nella lotta per la vita, ne hanno colto il senso e gli animali hanno loro insegnato molto.
Perché, tra le mille contraddizioni dello sviluppo e i milioni di problemi legati alla fame, il rapporto
degli Africani con il mondo animale è ancora ricco, fecondo, forte e intenso.
Gli Africani hanno assorbito la saggezza animale del carpe diem, della gioia di vivere intensamente
momento dopo momento un'esistenza continuamente minacciata. Le antilopi danzano come
ballerine sul tappeto erboso della savana, personificazione della letizia e dell'allegria. Ma i loro
muscoli sono pieni di adrenalina per essere sempre pronti a scattare per continuare a vivere.
Il re è nudo e senza denti
Nel mondo animale, la vita e la morte sono indissolubilmente legati, in un rapporto che
difficilmente comprendiamo nelle nostre romantiche interpretazioni.
L'immagine di gazzelle al tramonto suscita nel nostro immaginario emozioni di pace e di
tranquillità: il sole scende dolcemente dopo una rovente giornata africana, incendiando il lago di
Kariba e illuminando i contorni delle antilopi in una magica luce dorata.
In realtà è un momento di
profonda angoscia per gli indifesi erbivori. Una volta, due di loro, che durante la giornata erano stati
lontanissimi dalla mia macchina fotografica, nella notte si infilarono addirittura sotto il mio camion,
per sfuggire un leopardo a caccia.
Quella notte gli occhi fosforescenti delle piccole antilopi, che
tremando aspettavano la morte ringhiante nel buio, mi illuminarono e mi condussero nei territori
sterminati delle sofferenze degli animali predati. Se il loro dolore facesse crescere l'erba, l'Africa
sarebbe tutta un tappeto verde.
Ma, la mattina dopo, le sopravvissute cantavano la gioia e la bellezza della vita, danzando felici sui
prati erbosi, come fanno i bimbi africani quando riescono a mangiare e a sopravvivere ancora un
poco.
Le mamme africane sono tenere e pazienti: i loro seni non sono attrezzi, gonfiati e sostenuti per fare
carriera e attizzare la lussuria, ma umili strumenti per dare il latte e la vita. La mammella, che da noi
arricchisce i chirurghi plastici, in Africa è solo un biberon di carne, come insegnano gli animali e il
suo avvizzirsi, cadendo verso il basso per seguire la legge di gravità, è visto dalle donne africane
come una liberazione dalla fatica degli allattamenti.
Tuttavia, il calvario del vivere non è una prerogativa esclusiva degli erbivori. Anche l'esistenza dei
predatori non è esente da problemi. Suggestionati dagli stereotipi, noi tendiamo a vedere la vita di
un leone secondo i canoni regali del re della foresta. Il leone dispone come un signore feudale a
proprio piacimento del territorio, delle relative prede e di voluttuosi harem di procaci leonesse. Lo
ius primae noctis se lo conquista nella savana a forza di zampate.
Ma avete pensato al destino di un leone sdentato, incapace non solo di ammazzare, ma anche di
masticare i muscoli delle prede?
Attendono pazienti le iene, che quando sarà troppo debole per difendersi lo faranno a pezzi ancora
vivo, consumando una vendetta lungamente attesa per ripagare antichi e consueti soprusi.
Ancora peggiore la fine del leopardo, il solitario samurai della savana che non può contare sulla
solidarietà del gruppo: quando un giovane inesperto afferra un istrice, si condanna a morte perché
gli aculei si spezzano nelle sue zampe infettandole e paralizzandole in un calvario di dolore -se il
leopardo si muove - e di fame - se non si muove.
Maestro elefante
E gli elefanti? Chi più felice di loro, senza predatori? I panzer della savana sembrano condurre una
vita contenta e serena.
Il quadro idilliaco si offusca se si considerano le dolorose infezioni alle zampe, gli ascessi alle
zanne e ai denti, le otiti, il cui dolore è proporzionale alla vastità dei padiglioni auricolari e
soprattutto la morte per fame e stenti che attendono tutti i pachidermi che raggiungono la vecchiaia.
Verso i 40-45 anni cresce la sesta fila di molari, soggetta come i precedenti ad un enorme
logoramento, nella masticazione quotidiana di quasi tre quintali di vegetazione.
Dopo dieci, quindici anni a seconda della durezza della dieta, l'apparato masticatorio è sbriciolato e il
pachiderma non può più mangiare, se non piccoli e teneri germogli, che spuntano dopo le piogge.
Inizia allora il calvario della consunzione del vecchio elefante che fa fatica a camminare e sempre
più debole barcolla sulle grandi zampe. Un giorno pietoso, muore affogato nella pozza d'acqua,
incapace di sollevarsi. Se è fortunato, cade sul terreno, circondato dal branco, che tenta di rialzarlo
con i piccolini che fanno salti buffi tra le enormi zanne del nonno.
Il nonno muore accarezzato dalle proboscidi del branco, nell'ultimo sereno, africano saluto. Poi
viene coperto di foglie e di rami secchi, in una sorta di elefantino funerale, per salvare il corpo dalle
iene che si stanno già leccando i baffi.
Finalmente il branco riparte, un treno grigio nel giallo della savana, guidato dalla vecchia matrona,
tra i barriti di gioia dei giovani e le caracollate dei cuccioli attaccati alle code materne.
Un funerale sereno e giocoso come molti funerali africani, in cui gli uomini neri danzano e ballano
per giorni, accettando con saggezza il ciclo della vita che i nostri affetti non possono scalfire. Così
come non si può piegare una montagna con un filo d'erba.
Tratto dall'introduzione di Mauro Burzio, ANIMALI D'AFRICA, Mondatori, Milano 2002.