La lingua dell'uomo

C'era una volta un giovane contadino talmente povero, che la sera si chiedeva come aveva fatto a rimanere in vita ancora un altro giorno.
La vita infatti era stata molto avara con lui: i campi gli erano stati bruciati dal fulmine, i raccolti divorati dalle cavallette, le vacche uccise dalla peste, mentre il suo cuore era appesantito dalla malinconia e dalla solitudine. Sì, per rendere ancora più amaro il veleno, i vicini lo evitavano come un appestato convinti che potesse loro trasmettere la sua incredibile sfortuna.
E i suoi parenti, che vivevano in un altro villaggio, erano troppo poveri per poterlo aiutare. Così, un giorno di vento, lasciò quella valle di lacrime sabbiose e s'incamminò verso l'oriente, convinto che peggio di così non poteva andare e che più in basso era impossibile precipitare. Camminò, camminò, camminò, quanto camminò...
Era quasi buio quando stremato ed affamato si appoggiò ad un'acacia, mentre lo stomaco gli si contraeva dalla fame. Poi udì un ruggito che fece tremare le foglie ed un gran leone dalla criniera nera uscì dalla foresta annunciando che la caccia era cominciata.
Il contadino, non sapendo che fare, s'inginocchiò davanti al felino e con la fronte toccò la polvere della savana.
Poi disse:
"Signore della foresta, uccidimi subito, ma fallo in fretta e senza farmi soffrire perché ho troppo sofferto. Oppure, se lo vuoi, salvami, perché sto morendo di fame".
Il leone aveva un animo generoso e molto nobile era il suo cuore: s'inteneriva per i più sfortunati e, cosciente della propria forza, poteva spezzare il collo di una zebra con una zampata feroce oppure accarezzare un cucciolo con felina tenerezza. Quell'umano poveraccio che stava dritto perché non tirava vento, con il viso mansueto e la malinconia negli occhi, era stato segnato profondamente dalla vita e il leone si disse:
"Non voglio infierire! Sarebbe troppo facile staccargli la testa con una zampata. Anziché mangiarlo, gli darò da mangiare!".
Con un balzo, gli passò sopra ruggendo, mentre il contadino aveva chiuso gli occhi pronto a morire. Il predatore tornò poco dopo con un'antilope ancora calda che trascinava per il collo spezzato e la mangiarono insieme. Poi il contadino si sdraiò sotto l'acacia e il leone gli si accovacciò vicino: temeva infatti che le iene potessero attaccare l'uomo nel buio della notte.
Divennero amici e il contadino gli raccontò la sua vita. Il leone ascoltava e ciondolava il testone, condividendo le pene del bipede nudo, mentre gli occhi gialli brillavano di compassione e la criniera nera si appoggiava triste sulla schiena possente.
Passarono lunghi giorni insieme, aspettando all'ombra l'arrivo della notte e il momento della caccia. Di ogni preda, il felino lasciava all'amico la parte migliore.
Poi si recavano al fiume e l'uomo gli lavava la criniera, che si gonfiava nera ed orgogliosa al vento caldo della savana.
Un giorno di vento il contadino chiese al suo peloso amico:
"Lasciami tornare alla mia casa! E' tanto tempo che non vedo i miei parenti."
Il gran felino abbassò la testa e lo guardò con affetto:
"E' molto lontano il villaggio dei tuoi parenti. Ti accompagnerò io stesso perché i predoni potrebbero attaccarti e i miei colleghi predatori farti a pezzi: come puoi difenderti con quelle unghie ridicole e con quei denti da cucciolo? Come puoi correre con quelle gambette nude e striminzite, che sanguinano per niente?"
Quando arrivarono al villaggio, il leone lo scortò fino alla capanna dei parenti. Poi, ruggendo un saluto d'addio, se n'andò trotterellando sulle zampe possenti e tornò nella foresta.
Dopo molti mesi, si chiese:
"Perché il mio amico non torna?" e andò a cercarlo. Giunse al villaggio degli uomini al tramonto e, per evitare le frecce di cacciatori, si avvicinò strisciando silenzioso alla capanna dove aveva lasciato il suo amico.
Proprio in quel momento i parenti gli stavano chiedendo:
"Ma dicci ancora come sei potuto stare nel paese del leone? Non sai quanti pastori sono stati sbranati per difendere il loro gregge?".
E sentì il contadino che rispondeva:
"Avete ragione. Ma il mio leone è buono anche se è selvaggio, ignorante e rozzo, gli voglio bene anche se puzza terribilmente."
Il leone ascoltò le parole dell'uomo, gli occhi gialli brillavano nella notte come due stelle, strisciò silenzioso come un cobra e se ne tornò alla sua foresta.
Un giorno, il contadino decise di tornare nel paese del leone e appena arrivato lo salutò: "Come stai, amico mio? Quanto tempo è passato! Avevo propria voglia di vederti!"
Il leone brontolò il saluto dei leoni, poi ruggì:
"Colpiscimi con la lancia! Se non lo farai, ti sbranerò! Fai come ti dico ed affonda la lancia nel mio petto!".
Il contadino atterrito lo ferì profondamente.
"Ora, estrai la lancia e curami! Poi portami della selvaggina in modo che io possa mangiare e guarire di questa ferita".
Il contadino eseguì gli ordine del signore della foresta, che in poco tempo si riprese, grazie alle cure e al cibo dell'amico bipede.
Ormai guarito e in forma, il leone gli chiese:
"Com'è la ferita?"
"E' guarita e ben cicatrizzata!".
"La ferita della lancia guarisce, come vedi. Ma su quella inferta dalla lingua umana non ricresce più il pelo perché una parola cattiva non guarisce mai. Tu hai detto che sono selvaggio, ignorante e rozzo e che puzzo terribilmente. Questa ferita mi ha lacerato il cuore e non si chiuderà più. Vai, torna al tuo paese e stammi lontano per il resto del tempo!".
E un ruggito triste salutò il contadino che si allontanava a testa bassa, mentre il vento sollevava la polvere rossa della savana e il Creatore stendeva sul cielo arrossato la pelle di cuoio della notte.

Novella dei Galla dello Scioa (Etiopia)