Viaggio nel cuore dell'Africa

L'aereo si scuote tutto e accelera bruscamente sulla pista di decollo illuminata. Un ultimo sobbalzo e già saliamo ripidamente. Osservo dal finestrino e seguo quasi affascinato come sotto di me nel buio e tra le nuvole vada lentamente sparendo l'aeroporto di Ruzyne. Il vetro è rigato da pesanti gocce di pioggia. Soltanto ora comincio a rendermi conto che non ritornerò prima di un anno, e stento a credere in quale folle vicenda mi sono avventurato quando ho deciso di partire come medico per l'Africa centrale.
Non so esattamente che cosa farò in Africa e non ho neppure le idee troppo chiare sulla Repubblica Centrafricana, i suoi abitanti e le loro usanze. A disposizione non ho che alcuni dati essenziali rilevati su internet. Quella che soltanto alcuni attimi or sono, all'aeroporto, mi sembrava una decisione ragionevole e giusta, mi pare ora, nell'oscurità di questo aereo semivuoto sospeso tra cielo e terra, una vera pazzia.
Chissà cosa darei perché si trattasse soltanto di un sogno.
Un brivido di gelo mi percorre la schiena all'idea che è troppo tardi per pensare al ritorno. All'esterno è buio completo. Sotto di noi la terra è già sparita da tempo. Nel gradevole ambiente che mi circonda, nella mia mente riaffiorano uno dopo l'altro i ricordi come quadri viventi.

Un incontro che ha cambiato la vita

Mi pare ieri allorché, un anno prima, avevo incontrato padre Anastasio, priore della chiesa di Maria Vergine della Vittoria e del Bambino Gesù a Praga, Malá Strana. Allora desideravo saperne di più sull'attività missionaria dei carmelitani italiani nei paesi del Sud del mondo, avevo da poco tempo superato il primo esame di abilitazione in chirurgia e lavoravo a Praga presso l'Istituto di medicina clinica e sperimentale in cardiochirurgia.
Già da diverso tempo mi cullavo all'idea di mettere a frutto le mie conoscenze ed esperienze a favore di coloro che vivono nelle regioni più povere del pianeta. Avevo incontrato per la prima volta padre Anastasio in un'uggiosa giornata d'inverno.
I muri del convento di MaláStrana erano gelati e all'interno della chiesa regnava un freddo penetrante. Quando però sono entrato in sagrestia mi ha investito un gradevole soffio di aria calda. Padre Anastasio mi stava già aspettando. Sapeva già perché mi ero recato da lui, e subito aveva preso a parlare con fervore ed entusiasmo del paese in cui aveva trascorso diversi anni come missionario. Impossibile non notare quanto fosse affezionato a quel paese e ai suoi abitanti. Ho avuto subito l'impressione che si trattasse esattamente di quanto stavo cercando. “Lei crede - dissi interrompendo la sua accorata esposizione - che un giovane medico come me, con poca esperienza clinica, possa essere di qualche utilità in Africa?”.
“Naturalmente”, aveva sorriso, “e se tu andassi in Africa per un certo periodo di tempo, il tuo lavoro qui potrebbe essere ricoperto sicuramente da qualcun'altro, ma il lavoro che potresti svolgere in Africa nessun altro è in grado di farlo. Laggiù c'è un'enorme carenza di medici e la maggior parte degli ospedali praticamente non funziona”.
È così che ho maturato la mia decisione, che p. Anastasio aveva poi accettato con evidente gioia, offrendosi anche di assicurarmi il trasferimento in Africa e un alloggio gratuito, compreso il vitto, nella missione dove operavano i suoi confratelli. A mia volta avevo acconsentito di buon grado a svolgere la mia professione rinunciando a qualsiasi compenso. “Lavoreresti probabilmente presso l'ospedale di Bozoum, una cittadina dove i carmelitani hanno una loro missione.
A Bozoum, però, l'ospedale è statale e bisogna vedere se le autorità sono d'accordo. Se non lo fossero potresti svolgere la tua attività nei piccoli dispensari di Niem o Yolé che appartengono alla Chiesa”, aveva aggiunto p. Anastasio. “Io però non conosco una sola parola di francese e dubito che il mio inglese e il mio russo possano essermi di aiuto nella boscaglia”, avevo detto di rimando. “Non è un problema”, aveva proseguito p.
Anastasio con un gesto della mano, “se lo desideri potrei organizzarti un alloggio per sei mesi in una pensione delle suore francescane a Lione, in Francia. Anche loro hanno una missione a Bozoum.
Ti accoglieranno volentieri. Oltre al corso di francese, potresti frequentare anche un corso di medicina tropicale di cui in Africa avrai sicuramente molto bisogno”.
L'idea era assai allettante anche se la cosa si presentava abbastanza impegnativa. Tuttavia, siccome evidentemente non c'erano alternative, avevo accettato senza troppa esitazione.

Iniziazione alla medicina tropicale

Il mio soggiorno e lo studio in Francia furono per me davvero di grande supporto. Non solo avevo imparato discretamente il francese, ma avevo frequentato anche un corso trimestrale di medicina tropicale conclusosi con un esame all'Université Catholique de Lyon. Poiché era prevedibile che in Africa avrei dovuto risolvere problemi al di fuori della mia specializzazione, avevo concordato di frequentare anche alcuni stages in pediatria, in chirurgia pediatrica e in altri reparti degli ospedali lionesi.
In molti medici francesi avevo davvero trovato comprensione. Col tempo era emerso che alcuni di loro avevano trascorso un certo periodo in Africa. Inoltre, per il mio futuro lavoro, ero riuscito ad ottenere gratuitamente dai più svariati sponsor materiale sanitario e farmaci, e non soltanto in Francia, Svizzera, Italia, ma anche qui da noi a Praga.
Poi, con la collaborazione dei carmelitani italiani avevo spedito in anticipo tutto il materiale raccolto nella Repubblica Centrafricana, dove non avevo dimenticato di inviare al locale ministero della sanità la domanda del mio permesso di lavoro. I miei preparativi per un periodo di soggiorno di un anno in Africa erano filati lisci al di là di ogni aspettativa. Le prime complicazioni erano sorte poco prima della partenza.
Ricordo che per un'intera settimana, giorno dopo giorno, avevo telefonato a padre Anastasio per sapere se aveva finalmente ricevuto il tanto aspettato visto. La risposta era sempre la stessa: “Beh, sai, Marcel, non è ancora arrivato niente. Ma vedrai che arriverà”. Ammiravo il fantastico ottimismo di Anastasio. Sapevo molto bene che ottenere il visto non era affatto facile.
La Repubblica Centrafricana non ha alcuna rappresentanza diplomatica nel nostro paese per cui tutte le trattative con le autorità locali nella capitale Bangui si erano svolte per settimane solo via fax oppure per telefono. Non rimaneva che attendere. Ancora sabato mattina 8 gennaio 2000, giorno della mia partenza, pareva tutto quasi senza speranza.
Fin dal mattino non avevo fatto che rispondere a una telefonata dopo l'altra e spiegare ai miei conoscenti che desideravano accomiatarsi da me che non sarei partito perché mi mancavano i documenti necessari. Per me p. Anastasio aveva addirittura rimandato al sabato a mezzogiorno il suo volo di venerdì per l'Italia nel tentativo di procurarmi il visto nella mattinata.

Finalmente la partenza

Ovviamente alle 10 del mattino si era dovuto purtroppo recare all'aeroporto. Durante il tragitto aveva avuto il tempo sufficiente per consegnarmi alcune lettere che aveva scritto ai suoi amici nelle missioni in Africa e al momento del commiato mi aveva assicurato che al più tardi entro quattro giorni avrei avuto il visto e sicuramente sarei potuto partire.
“Io sarò ancora in Italia” aveva detto pensieroso, “ma tu in qualche modo te la caverai”. Dopo la partenza di padre Anastasio nessuno pensava che, data la situazione, qualcosa sarebbe potuto cambiare. In casa nostra, a mezzogiorno, al nervosismo e al trambusto era subentrato un clima tranquillo. La mamma aveva cominciato a preparare con calma il pranzo e io, ormai rassegnato al mio destino, tra le valigie mezze fatte, avevo iniziato una partita a scacchi con mio fratello. In quell'attimo uno squillo di telefono.
Dalla voce avevo riconosciuto il confratello di p. Anastasio, il prete indiano Gérôme, autorizzato da p. Anastasio ad esaminare, durante la sua assenza, tutti i fax in arrivo e ad informarmi immediatamente qualora da Bangui avessero inviato il visto. “Il visto è avvivato, è avvivato”, gridava gioiosamente al telefono p.Gérôme, dimenticando nell'eccitazione il ceco. Per me era stato come un fulmine a ciel sereno.
Alla partenza mancavano ormai soltanto poche ore. Era iniziata una corsa col tempo. In fretta e furia avevo raccolto le cose sparse qua e là nella stanza riponendole nella grande valigia e ancora una volta avevo controllato attentamente che nello zaino non mancassero i libri di medicina e gli strumenti del chirurgo. Il babbo e mio fratello minore si erano offerti di andare a ritirare il visto dai carmelitani per darmi la possibilità di dedicarmi agli ultimi preparativi.
Messi scrupolosamente al sicuro il sospirato visto e il passaporto, ci eravamo finalmente avviati all'aeroporto. Prima della partenza tutto si era svolto talmente all'improvviso che nessuno di noi aveva avuto il tempo di pensare ad una lontananza reciproca di lunga durata né al pericolo di malattie tropicali nell'Africa equatoriale.
Al contrario, invece di un commiato triste che avevo sinceramente temuto, c'era stato un commiato sereno e compiaciuto per come tutto era filato bene. Poi gli auguri, davvero cordiali, di tutti.

Uno zainetto da non perdere

Le operazioni di controllo doganale all'aeroporto si erano svolte senza problemi. Solo il mio zaino, che non intendevo lasciarmi togliere di mano per nessuna ragione al mondo e volevo a qualsiasi costo portarmi in cabina come bagaglio a mano, aveva generato un po' di confusione.
Ho ancora davanti agli occhi lo sguardo severo di un doganiere che al controllo ai raggi X dei bagagli mi aveva ordinato di aprire il voluminoso zaino.
Non credeva ai suoi occhi. Il suo sguardo incredulo si era concentrato su una scatola di cartone stracolma di strumenti da chirurgo e il suo viso aveva assunto un'aria di sorpresa indicibile Mentre scuoteva il capo come chi non riesce a capire, cercavo di spiegargli per filo e per segno a cosa mi servivano quei bisturi e perché dovevo necessariamente averli con me in aereo. “Se mi vanno perse le cose che si trovano nello zaino, io in Africa sarò del tutto inutile”. “Allora vada, vada”, aveva fatto con un cenno della mano il doganiere con tono rassegnato. “Signore e signori, allacciate le cinture e raddrizzate i vostri schienali. Tra pochi istanti atterreremo all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi”. La gradevole voce della hostess mi distoglie dai ricordi.
Dopo pochi minuti mi trovo nella hall di transito, finora non ero mai stato in un aeroporto tanto grande. Tutt'intorno si affretta una folla di passeggeri con bagagli, lampeggiano i tabelloni elettronici, i negozi pieni di merci di lusso emanano luci sfolgoranti. “E adesso?”, mi guardo attorno. Già a Ruzyne mi avevano informato che l'aereo da Parigi per Bangui, in partenza dopo la mezzanotte, avrebbe decollato da un terminal diverso da quello in cui eravamo arrivati da Praga. Dopo una breve ricerca mi siedo sull'autobus in sosta, uno di quelli che fanno la spola tra i terminali.

Compagni di viaggio e di ventura

Il cielo è coperto, è buio e piove. Mi resta ancora da trovare lo sportello del check-in. E mentre mi guardo attorno con occhio indagatore, intravedo un volto noto. È Angelo, un dentista italiano che da anni lavora nella missione di Yolé, a circa 150 km dal mio prossimo posto operativo.
Lo conosco. Una volta c'eravamo incontrati a Praga dove mi era stato presentato da padre Anastasio. “Ciao, Angelo”, lo chiamo e gli scarico addosso il mio pesante zaino. Angelo porta a tracolla soltanto un bagaglio leggero.
“Tutto il resto l'ho lasciato in Africa”, mi spiega, “sono stato in Italia soltanto in vacanza, a respirare un po' di aria fresca”, aggiunge sorridendo. Mentre saliamo in aereo lo perdo di vista. Apprendo in seguito che, da viaggiatore esperto, è riuscito a compiere il viaggio di 9 ore, impegnativo e faticoso, seduto comodamente in prima classe nonostante avesse il biglietto di economy come me. Partendo in aereo mi sono subito reso conto che non sarebbe stato un viaggio comodo come quello da Praga a Parigi.
I miei compagni di viaggio non erano più gli imprenditori compassati, riservati e silenziosi con la valigetta, ma una moltitudine di gente vociferante che cerca di sospingere i numerosi bagagli negli appositi vani sovrastanti i sedili. Alla fine alcuni si arrendono e occupano senza alcun riguardo ogni piccolo spazio del corridoio. Sui bagagli così ammucchiati alla rinfusa sopravvengono poi altri passeggeri che cercano di evitarli, scavalcarli, ma che inciampano inesorabilmente. Gli stewards cercano in ogni modo di mantenere l'ordine e accompagnano pazientemente i passeggeri che lo richiedono al posto loro assegnato.
La maggior parte dei viaggiatori sono neri. Vicino a me si adagia comodamente e con sollievo un uomo anziano con una camicia a fiori. Il suo volto solcato da rughe profonde è bruciato dal sole. Durante il volo chiede continuamente alla hostess delle pillole contro il mal di testa.
Mi spiega di essere portoghese e di fare il boscaiolo nelle foreste del sud del paese alla frontiera con il Congo. “E lei dove va?”, mi chiede con curiosità.
“A lavorare all'ospedale di Bozoum”, rispondo io. “Allora si prepari”, mi dice accigliandosi, “in Africa è meglio lavorare col legno che con i neri!”. Non ho voglia di continuare a parlare.

Malati da curare in aereo

Mezzanotte è trascorsa da tempo e spero di dormire ancora un po' prima che sia mattina. Verso l'una e mezza di notte mi svegliano voci concitate e il nervoso andirivieni degli stewards. Giro la testa e vedo un'anziana donna nera che di tanto in tanto vomita, poi cade in uno stato di incoscienza senza dare più segni di vita. “Ancora non sono in Africa e già ho del lavoro”, dico tra me e me. Ma che cosa fare? Mi alzo dal sedile e mi presento all'equipaggio in qualità di medico. Quelli tirano un sospiro di sollievo.
Infatti non sanno che cosa fare con una donna in quelle condizioni. Sotto di noi si va aprendo il Sahara e ciò significa ore e ore senza alcuna possibilità di atterraggio. Addirittura si presenta da me il capitano dell'aereo chiedendomi se non sarebbe meglio fare ritorno al più vicino aeroporto. Cerco di tranquillizzare tutti i membri dell'equipaggio. Li rassicuro sullo stato di salute della donna che ho appena visitato. Il capitano registra la notizia di questo avvenimento sul diario di bordo e io mi immergo nuovamente in un pisolino.
È mattino presto. Il sole non è ancora apparso all'orizzonte e il nostro aereo sta già atterrando a N'Djaména in Ciad. Intorno tutto è così diverso dall'Europa. Circonda l'aeroporto soltanto una steppa infinita, polverosa e bruciata dal sole, punteggiata di laghetti e di bracci ciechi di palude non lontano dal lago Ciad. Qui il paesaggio è deserto e desolato.
Sono contento che tra poco, dopo il rifornimento di carburante, potremo riprendere il volo. Subito dopo il decollo approfitto dei rapporti amichevoli con l'equipaggio per chiedere al capitano se mi è consentito di assistere al sorgere del sole africano dalla cabina di pilotaggio. È uno spettacolo davvero fantastico. Mentre seguo con interesse il rapido apparire della sfera rovente all'orizzonte, l'aereo è sempre diretto verso sud. Sotto di noi di punto in bianco si squarciano le nubi e noi stiamo nuovamente scendendo verso terra. Distinguo facilmente le casette a un solo piano e i campicelli coltivati di colore verde scuro. A destra si snoda un fiume imponente per larghezza. “È l'Oubangui e sull'altra sponda è già il Congo con le sue foreste infinite”, dice con tono d'intenditore il mio vicino portoghese. Lo interrompe l'altoparlante di bordo.

Consigli all'arrivo

“Egregi signori, siete atterrati all'aeroporto di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Vi avvertiamo che qui è severamente vietato fotografare l'aeroporto, le stazioni di polizia, gli uffici delle autorità, tutti gli edifici amministrativi nonché le frontiere di stato. La violazione è punita a norma di legge”. Mi stavo preparando a scattare un paio di foto al momento del mio arrivo nel paese, ma non mi resta che riporre diligentemente la macchina fotografica.
L'aereo si ferma e con un sibilo si aprono i portelloni. Finalmente siamo arrivati. L'aeroporto M'- Poko è l'unico aeroporto con traffico internazionale nella Repubblica Centrafricana. È costituito da un piccolo edificio di un solo piano, piuttosto scalcinato, fiancheggiato da una postazione militare fortificata. Mi investe un'ondata di aria calda e umida. La differenza di temperatura, ora, in gennaio, tra Praga e Bangui è di circa 30°. La camicia di flanella mi si appiccica sgradevolmente al corpo e in fronte mi scorrono le prime gocce di sudore. “Mi abituerò”, mi dico senza troppa convinzione e scendo lentamente dall'apposita scaletta con il mio zaino stipato. Chi si attendeva che all'uscita dall'aereo un autobus avrebbe portato i passeggeri nella hall dell'aeroporto, si è sbagliato di grosso. Come gli altri mi incammino verso l'edificio dell'aeroporto al posto di controllo di dogana e passaporto. Mentre aggiro le gigantesche ali del velivolo, noto che i facchini locali si accingono a svuotare il bagagliaio.

E poi i primi problemi

“Votre visa n'est pas valide - il suo visto non è valido”, mi comunica con una faccia da sfinge un poliziotto locale e mi ritira il passaporto con il visto tanto difficilmente conquistato, prima ancora che io possa reagire. Cerco inutilmente di protestare e polemizzare. “Ritiri innanzitutto il suo bagaglio e poi si presenti a quello sportello”, mi dice con aria seccata il tutore della legge mentre già si gira verso un altro viaggiatore. Mi avvio sgomento verso il nastro trasportatore dove già stanno girando i primi bagagli scaricati.
Osservo con impazienza in attesa di vedere finalmente apparire anche la mia valigia. Niente da fare. La mia valigia non c'è e io come una statua di sale me ne sto lì in piedi davanti al nastro che gira a vuoto. “Cominciamo proprio bene”, mi dico contrariato, e mentre penso che sono a un passo dall'equatore senza passaporto, senza visto, senza documenti e senza bagaglio e per di più infagottato in indumenti invernali, sospiro infelice: “Meno male che ho con me i miei libri e i miei strumenti da chirurgo” e mentre guardo lo zaino il mio pensiero va con riconoscenza al doganiere di Praga.
Quasi disperato, ricordo l'ultimo colloquio con padre Anastasio quando si è accomiatato da me: “Preparati, avrai dei problemi”, mi diceva. “Quali?”, ero curioso. “Non so, ma ne avrai parecchi. In Africa c'è sempre qualche difficoltà”. Allora non avevo ben capito, ma ora cominciavo a vederci chiaro. Mentre me ne sto così meditando, si dirigono verso di me Angelo con padre Saverio e il carpentiere Enrico che erano venuti a prenderci all'aeroporto. P. Saverio ed Enrico sono due italiani sui 35 anni, sorridenti, zazzeruti, impolverati di polvere rossa.
“Benvenuto tra noi”, vociano allegramente. Irritatoli metto al corrente delle mie difficoltà . “Hum, non è piacevole, ma è una cosa piuttosto frequente”. P. Saverio non è affatto sorpreso. Con una piccola mancia posso finalmente lasciare l'aeroporto e allontanarmi verso la città. A conti fatti, però, la situazione non può essere risolta. È domenica e tutti gli uffici sono chiusi. Poco dopo siamo a bordo di un fuoristrada Toyota e ci dirigiamo verso il Centre d'accueil, il centro di alloggio della missione per i nuovi arrivati. L'aeroporto è collegato alla città da una larga strada asfaltata piena di buche. Ai due lati si profilano baracche di assi inchiodate e tuguri in argilla.

L'entrata a Bangui

Come tutte le altre vetture, anche la nostra procede zigzagando tra una moltitudine di gente. Vedo qua e là un nero che sospinge un carretto stracolmo delle merci più svariate. Per i commercianti di legna non è affatto un problema legare su questo mezzo di trasporto anche tronchi lunghi 5 metri e trainarli per alcuni chilometri. In questo inimmaginabile formicaio umano risuona da tutte le parti la ritmica musica africana. Sorpassiamo il Parlamento e l'Arco di trionfo. Queste imponenti costruzioni contrastano con le povere abitazioni circostanti. Tutta la città è soffocata nella nube di polvere rossa che si deposita ovunque. Copre le piante, gli alberi, la lamiera ondulata e la paglia dei tetti delle case.
Penetra implacabilmente anche nella nostra vettura e fa digrignare i denti. Il cielo è insolitamente bianco e grazie all'onnipresente polvere, la luce del giorno assume un particolare colore rossastro. E che alberi! Sono giganteschi, con larghe radici che fuoriescono anche di un metro dal terreno e sembrano le pinne di qualche pesce gigantesco. È tutto un altro mondo. Dopo circa 15 minuti ci fermiamo davanti al Centre d'accueil, di fianco alla cattedrale di Notre Dame. Al centro di un complesso di bassi edifici a pianterreno disposti a quadrilatero si apre un piccolo cortile ombreggiato da alberi giganteschi, sotto i quali sostano impolverati fuoristrada di vari modelli ed epoche. Tutto il terreno è recintato e custodito.
La costruzione appartiene all'arcivescovado e serve da stazione di transito per tutti i missionari che dall'Europa arrivano nella boscaglia africana ed anche per quelli che tornano in Europa. Per pochi soldi qui è possibile pernottare, mangiare, telefonare oppure spedire fax in Europa. Il telefono qui è una vera rarità e la maggior parte delle missioni ne è sprovvista. Dopo brevi convenevoli di benvenuto con i membri permanenti del centro, mi vengono consegnate le chiavi della mia camera dove entro direttamente dal cortile come in un motel. L'arredo è assai semplice: tavolo, s edia, letto con zanzariera e lavandino.

La messa nella cattedrale

Mi piacerebbe visitare il centro più a fondo, ma non ho molto tempo. È domenica e tra breve nella cattedrale avrà inizio la messa solenne. Da lontano odo già i tamburi e il canto vivace della gente. Tutto sudato, depongo in terra lo zaino di 15 kg e con la manica mi asciugo la fronte. Chissà se vedrò mai più la mia valigia. La cattedrale dista circa 200 metri.
Ma non percorro neppure metà strada che già sento il calore del sole di mezzogiorno bruciarmi spietatamente il capo. Me la prendo con me stesso e mi riprometto che senza copricapo non mi esporrò mai più al sole.
Mi sorprende la grandezza della cattedrale. Questo ampio edificio, anche se relativamente basso e senza intonaco, costruito con mattoni rossi e col tetto coperto di lamiera ondulata, ha al suo ingresso, da ambo i lati, una torre quadrata bassa senza punta. Appena entrato, attirano la mia attenzione le finestre della cattedrale. Non hanno vetrate, sono solo suddivise verticalmente da piccole traverse formando così delle piccole intercapedini che consentono la circolazione dell'aria e la formazione dell'ombra.
All'interno della chiesa si va già accalcando una folla numerosa. Non intravedo alcun bianco. I neri appartengono evidentemente all'élite cittadina. Gli uomini hanno le camicie accuratamente stirate e le donne indossano lunghi abiti variopinti con graziosi cappellini appoggiati sulle acconciature elaborate. Mi guardo attorno e vedo svolazzare sulle loro teste una specie di pipistrello.
Man mano che si avvicina capisco però che si tratta di un'enorme, stupenda farfalla di circa 20 centimetri. Prima d'ora non avevo mai visto qualcosa di simile. La messa solenne si svolge in un'atmosfera gioiosa. Grazie agli africani che amano cantare a lungo, dondolarsi e battere ritmicamente le mani, la funzione religiosa si protrae insolitamente rispetto alle nostre abitudini europee. Alla fine, completamente spossato dal caldo, dalla stanchezza e da tutte queste insolite impressioni, dopo un rito durato alcune ore rientro al Centre d'accueil. Desidero solo fare una bella dormita.
Mi sveglio nel tardo pomeriggio. Il sonno mi ha letteralmente rimesso in piedi. Sapendo che quando cala il buio cominciano a farsi vive le zanzare, do una controllata preventiva alla zanzariera. E in effetti presenta un paio di buchi che cerco subito di rammendare con alcuni fili di caramelle che poco prima di partire avevo tolto dall'albero di Natale.
Nonostante non abbia mai dormito ai tropici, ho letto molto sulla malaria e devo ammettere che sono piuttosto preoccupato. Ammalarsi subito all'inizio del soggiorno non sarebbe certamente di buon auspicio. Alle 6 di sera il buio cala improvviso. Prima di cena vado a fare una passeggiata in direzione della cattedrale. Poco dopo però ritorno in tutta fretta. Al buio in una città che non conosco non mi sento al sicuro. In cielo sta appesa la luna. A prima vista ha un aspetto strano. Sembra la mezzaluna turca, con le due estremità rivolte verso l'alto. Come se nella volta celeste risplendesse una grande lettera “U”.