Baoro e dintorni

Il mattino dopo a colazione mi incontro con padre Marcello. È un italiano sulla cinquantina, con un largo sorriso e i capelli bianchi. È venuto a prendermi da Bozoum, dove opera già da diciotto anni. “Partiremo dopo il pranzo. Da qui sono solo 250 km circa”, osserva amabilmente. E aggiunge “Tutti non vedono l'ora di conoscerti. Sono impaziente di presentarti alla nostra missione. Anche all'ospedale ti stanno già aspettando. Non credo però che sarebbe bene per te cominciare subito a lavorare là. Dovresti innanzitutto guardarti un po' attorno e imparare un po' il sango. È vero che all'ospedale gli infermieri conoscono il francese, ma i pazienti sono gente semplice dei villaggi. Parlano solo la loro lingua locale. Inoltre non hai ancora il permesso di lavoro dal Ministero. Dopo il week-end andrai a Niem, è un piccolo villaggio sulle montagne alla frontiera col Camerun. Padre Tiziano ha là un piccolo ambulatorio. Anche lui è medico e con lui potrai imparare diverse cose utili”.

L'ambulatorio delle suore

Ho sentito dire che qui le suore della missione hanno aperto di recente un piccolo ambulatorio. Subito dopo la colazione vado a vederlo con interesse. Davanti alla casetta bassa in cemento e alla veranda, stanno già attendendo con impazienza, dondolandosi sulle gambe, i primi pazienti. È mattino presto e all'ambulatorio incontro soltanto un aiutante nero. Mi guardo intorno con curiosità nella stanzetta. Tavolo, sedia, armadio con allineate accuratamente le medicine di base e un letto per visitare i pazienti. Quando l'aiutante si rende conto che sono medico, comincia senza esitazione a fare entrare i primi malati. Cerco in ogni modo di impedire la sua premurosa intraprendenza, ma inutilmente.

Il primo paziente

Entra per prima una donna con un bambino. Mentre il piccolo, che non ha affatto l'aspetto di un malato, mi squadra con curiosità, la sua mamma agita con foga le braccia e mi investe con una valanga di parole incomprensibili. Insiste nel volermi infilare in mano un sacchetto di plastica sporco e io non capisco assolutamente nulla. Assumo l'aspetto di chi non capisce e non sa che fare. Per fortuna tutta la situazione viene prontamente salvata dall'aiutante quando estrae dal sacchetto un verme bianco lungo circa 2 cm. “La madre lo ha rinvenuto stamattina nelle feci del bambino”, mi traduce dal sango indicando col mento la donna. Dò un'occhiata al contenuto poco invitante del sacchetto. Ricordo di avere visto anni prima il disegno di qualcosa di simile in un manuale di parassitologia. “È una specie di piccolo verme solitario”, dico con convinzione, “al microscopio possiamo accertare se nelle feci ci sono uova e in base al manuale anche stabilire la specie”. “Faccio subito”, si rallegra il nero. “Allora è qui”, odo alle mie spalle una gentile voce femminile. Giro la testa e vedo una suora che nel frattempo era giunta dalla missione. “Le piace il nostro ambulatorio?”, aggiunge sorridendo. Sono felice che mi abbia liberato, così mi congratulo di tutto doppiamente. “Vada a vedere anche la scuola”, mi consiglia amichevolmente. Acconsento con un gesto del capo e mi accomiato frettolosamente da entrambe.

Visita alla scuola

La scuola si trova dietro la missione, all'estremità del villaggio. La casupola è ombreggiata dalle piante di mango. Rivolgo un'occhiata discreta alla porta, ma non sfuggo all'attenzione dei bambini. In un attimo tutte le testoline nere si girano verso il punto dove io sono in piedi, immobile. “Venga avanti”, accenna rivolgendosi a me la suora che insegna qui. “Bambini, salutate!”. I piccini si alzano ed educatamente recitano: “Bon-jour, ma soeur”. Capisco che dicono: “Bonjour, Marcel. “Come fanno a conoscere il mio nome?”. Sono completamente disorientato. “Macché, non lo conoscono, sei tu che hai capito male”, spiega l'insegnante, “hanno detto Bon jour, ma soeur”, che significa buon giorno, sorella. Di francese più di questo non sanno. In prima classe si insegna soltanto nella lingua locale, ma quando arriva qualche ospite sono contenti di fare sfoggio del loro 'francese'”.