Un villaggio sulle montagne

Arriviamo nel tardo pomeriggio. Niem è un piccolo villaggio sperduto sulle montagne, situato quasi sulla cima del crinale del massiccio dello Yadé, in prossimità della frontiera camerunese, a 1200 m. sul livello del mare. Angelo entra nel cortile della piccola missione che si trova al centro del villaggio e che è costituita da un'unica casetta. Anche se il cortile è circondato da un recinto, le sue porte sono sempre spalancate e nulla impedisce agli abitanti del villaggio, soprattutto ai più piccoli, di muoversi liberamente tra il villaggio e la missione.

Niem e la missione

Il nostro arrivo non passa inosservato. In breve siamo circondati da un gruppetto di bambini che esaminano curiosamente noi e la nostra auto. Intanto dalla casetta esce nel cortile, sorridente, padre Tiziano. È un uomo sulla cinquantina, di bassa statura, coi capelli brizzolati e con occhiali dalle lenti spesse. A prima vista non ha affatto l'aspetto di un prete. Indossa una camicia chiara e vecchi jeans consunti. “Benvenuti”, ci dice, “ho qua del lavoro per tutti e due. A domani, però”, aggiunge con comprensione vedendo come siamo sporchi e sfiniti dalla stanchezza.

L'ospedale

Il mattino dopo ci rechiamo con padre Tiziano all'ospedale locale. Questo edificio basso a un solo piano, distante circa 200 metri dalla missione, è una costruzione in cemento, coperta da un tetto di lamiera ondulata. Nella parte sinistra si trova un'ampia stanza con otto letti e la sala parto, nella destra padre Tiziano ha l'ambulatorio dove visita i malati, poi ci sono il laboratorio, il reparto odontoiatria e il magazzino. Dietro questo edificio va gradualmente crescendo un piccolo insediamento di casette con tetto di paglia, costruite con materiale locale tradizionale poco costoso, cioè con mattoni di argilla. Serve quale ulteriore ampliamento dell'“ospedale”. I pazienti sono sempre più numerosi e di denaro per la costruzione di edifici più resistenti e per il loro funzionamento ce n'è poco.
Tiziano apre l'ambulatorio. Le prime a spingersi dentro sono soprattutto giovani mamme con i loro piccoli legati alla schiena con i foulard. “Marcel, occupati tu di queste tre pazienti e vedi che cos'hanno. Io ne prendo altre tre. Se c'è qualcosa che non sai o di cui hai bisogno, dimmelo”, dice p. Tiziano. E prima di mettersi al lavoro fa venire il suo aiutante nero: “Elia, vieni a tradurre per Marcel”.
Di ammalati ce ne sono molti. Il tempo manca e anche le attrezzature necessarie per eseguire esami più approfonditi. Tiziano manda i pazienti al laboratorio soltanto in via eccezionale. Stabilisce la diagnosi in base alle loro informazioni affidandosi al metodo classico, cioè guardando, auscultando, ascoltando e tastando. Per un attimo osservo p. Tiziano, poi anch'io comincio a dedicarmi ai pazienti. Mi sento insicuro.
Va peggio di quanto mi aspettavo. La prima nera per circa due minuti parla delle proprie difficoltà. Non capisco una sola parola. “Che cosa ha detto?”, mi rivolgo al mio traduttore. “Che ha mal di pancia”, taglia corto Elia. Sono disperato. Come posso in base a tale informazione fare una diagnosi? Devo innanzitutto conoscere i dettagli - da quanto tempo prova questi dolori, dove li sente e quanto sono intensi, che cosa provocano, che cosa li può lenire e molti altri particolari. Non mi resta che chiedere di nuovo. Elia traduce le mie domande e poi la risposta della paziente. Si vede chiaramente che non capisce la ragione del mio interesse per i dettagli e tende continuamente a darmi risposte parziali.

Essere medico a Niem

Il bambino ha la febbre già da due giorni, ma per il resto non presenta sintomi di una malattia precisa come polmonite, otite o meningite. In Europa si direbbe piuttosto una forma virale, curabile con medicine contro la febbre, vitamine e liquidi a sufficienza.
“Che ne pensi?”, mi rivolgo a p. Tiziano, “basteranno il Paracetamolo e liquidi a sufficienza?” “Aggiungi anche la cura della malaria - compresse Nivaquin”, mi consiglia l'italiano con premura. “Pensi che si tratti di malaria?”, chiedo nuovamente. “Non lo so”, si stringe nelle spalle Tiziano, “ma ricordati che qui, ogni qualvolta è presente la febbre, devi mettere in conto la malaria, finché non avrai dimostrato il contrario.
E ciò si può provare soltanto con ripetuti esami del sangue, cosa, questa, assolutamente impossibile se consideri il numero di pazienti e le nostre possibilità. Se il bambino ha la malaria e non riceve la cura appropriata, ti può morire magari anche domani”.

Imparare la lingua con la Bibbia

Bisogna innanzitutto cominciare dalla lingua. “P. Tiziano, ho sentito dire che insegni il sango”, chiedo con curiosità prima di cena. “Molto tempo fa l'ho insegnato ad alcune suore”, ammette, “ma ne avresti bisogno anche tu”, sorride con tono incoraggiante quando vede il mio aspetto stanco e afflitto. “Allora dopo cena vieni in cucina e porta con te la Bibbia”. Non capisco. Perché la Bibbia? All'ora stabilita mi reco nel posto fissato e porto con me una piccola Bibbia, edizione tascabile, stampata in lingua ceca.
Sulla tavola, di fronte a lui, è già pronto un libro. Anche quello è una Bibbia, ma in lingua sango. Comincio a capire. Naturalmente, metodo comparativo. Altra soluzione non c'è. P. Tiziano apre a caso la sua Bibbia all'inizio del vangelo di Luca. Cominciamo a leggere le prime frasi. Grazie alla traduzione ceca capisco perfettamente il loro significato. Ogni giorno analizziamo una frase dopo l'altra, la costruzione della frase e il significato di ciascuna parola. Da p. Tiziano mi faccio tradurre anche questioni e disposizioni di carattere medico e comincio a capire la logica della lingua. Col tempo sono capace di disporre le parole in frasi semplici.

Abituarsi all'Africa

I giorni trascorsi a Niem hanno rappresentato i momenti più difficili del mio soggiorno in Africa. Ogni giorno mi imbattevo in una lingua sconosciuta, curavo malattie mai viste prima, mi adattavo all'estenuante calore del giorno e al freddo della notte e mi abituavo gradualmente alla vita nella missione e al nuovo tipo di alimentazione.
Poiché ai tropici il corpo perde una notevole quantità di liquidi per via dell'aria secca e dell'enorme calore circostante, si deve bere molto e in continuazione - da tre a cinque litri al giorno - anche quando non si ha sete. Se non bevete rispettando questo regime, ve ne accorgerete innanzitutto dal vostro rendimento.
Presto vi sentite stanchi e deboli. Poi subentra il mal di testa, vi può facilmente succedere di avere crampi muscolari o di fare una colica renale, anche se prima non avete mai avuto problemi di calcoli ai reni. Ciò che mi metteva in difficoltà più del caldo e degli sbalzi di temperatura, era l'aria secca. Ogni sera mi coricavo sotto la zanzariera con una bottiglia di acqua filtrata perché di notte mi svegliavo più volte a causa della sete.

Solo all'ospedale

Dopo circa una settimana di attività svolta in comune, p. Tiziano aveva cominciato a lasciarmi lavorare da solo. Non era affatto facile lavorare in ambulatorio, da solo con i miei aiutanti locali. Erano gentili, ma diffidenti. E, in più, contrariati dal fatto che le visite duravano tanto a lungo. Farsi intendere tramite l'interprete era una cosa piuttosto goffa e nel determinare la diagnosi soltanto “dando un'occhiata al paziente quando entra dalla porta” ero inesperto.
Non era affatto invidiabile la situazione venutasi a creare quando, alcuni giorni dopo, padre Tiziano dovette recarsi per un periodo di 3-4 giorni a Bouar per fare provviste, lasciando a me tutta la responsabilità dell'“ospedale”. Quando, al mattino, passo a controllare il reparto degenti, la levatrice mi conduce immediatamente da una donna che di notte ha partorito un bambino morto. “Ha perso un po' di sangue, signor dottore” e indica un secchio per un terzo pieno di sangue coagulato.
Rivolgo lo sguardo alla puerpera. Ha le palme pallide, la fronte madida di sudore freddo, le pulsazioni appena percettibili. “Deve subito ricevere del sangue”, dico con una buona dose di determinazione, “e prima che lo abbiate dai suoi parenti, fatele almeno un'infusione nella vena”. Dopo breve la levatrice ritorna imbarazzata: “Non è possibile, non riesco a trovare la vena, ho fatto quanto potevo”.
Prendo l'ago e ci provo io stesso. La paziente purtroppo ha già perso tanto sangue che le sue vene sono completamente danneggiate. La sua condizione è sensibilmente peggiorata ed ora è sotto choc. “E ora? Se non le perforiamo la vena e non riceve subito del sangue, presto morirà”, si lamenta infelice la levatrice. “Allora prepara la vena. Portate gli strumenti sterilizzati”, dico interrompendo i suoi disperati lamenti. Ora il silenzio si è fatto di tomba.
La levatrice mi guarda con gli occhi sgranati per la sorpresa: “Non abbiamo niente del genere. Qui non è mai stata fatta nessuna operazione”. “Però di tanto in tanto cucirete pure qualche ferita, no?”, chiedo non meno sorpreso. “Beh, sì, qualche volta”, ammette la donna, “delle forbici, un bisturi e una pinzetta ci dovrebbero essere qui, da qualche parte. Però non sterilizzati”. “Allora porti qui tutto e in più anche un vassoio di metallo e dell'alcool. ” L'infermiera non finisce di stupirsi. Accenna di sì col capo e se ne va in tutta fretta. Poco dopo è di ritorno, non soltanto con le cose, ma anche con gli altri aiutanti.

Sterilizzazione in loco

L'unico modo per sterilizzare gli strumenti è riscaldarli a temperatura elevata. Verso l'alcool sul fondo del vassoio dove dispongo gli strumenti di metallo, quindi dò fuoco all'alcool. Sul vassoio si forma una fiammella bassa, vampante, di colore azzurrognolo. Prendo rapidamente il vassoio per le estremità e lo agito da una parte all'altra. Improvvisamente la fiamma divampa in alto, molto più di prima. Di colore arancione. Sotto gli occhi dei presenti ho “flambato” gli strumenti. Per gli astanti è una cosa sensazionale. Tutti si accalcano con diffidenza attorno a me. Dopo questo inizio ad effetto, mi infilo i guanti, addormento la zona antistante la parte interna della caviglia e preparo la vena dove introduco l'ago con cannella che poi congiungo con la flebo. A questo punto lo stupore dei neri esplode in entusiasmo. Mai visto una cosa simile! Di colpo, da “coglione” bianco che non capisce la loro lingua, sono diventato un “vero dottore”. La puerpera, dopo ripetute trasfusioni, si è ristabilita e nel giro di pochi giorni ha lasciato l'ospedale.

Convivere con la morte

Grazie a questo episodio, il personale sanitario locale ha finalmente cominciato a prendermi seriamente e a collaborare di buon grado con me. Non tutti i pazienti, però, sono guariti. Ancora oggi ricordo un ragazzino arabo, che i genitori avevano portato in braccio, con una grave forma di malaria. Lo avevano deposto sul tavolo, ma prima ancora che riuscissi a somministrargli il farmaco, mi è morto sotto gli occhi. Ricordo anche un piccolo di un anno, con un'infezione al cervello. Per alcune notti sono andato regolarmente all'ospedale per praticargli l'iniezione. Se volevo che il bambino assumesse gli antibiotici con regolarità, dovevo occuparmi della cosa da solo. Gli aiutanti di p. Tiziano somministravano le terapie ai pazienti soltanto al mattino e alla sera, dopodiché ritornavano al villaggio a trascorrere la notte in famiglia.
Ogni notte, perciò, alla missione mi svegliava il guardiano notturno, e dietro di lui poi mi incamminavo, mezzo addormentato, verso l'ospedale. Dopo un'intera giornata di lavoro ero talmente stanco da riuscire a malapena a tenere gli occhi aperti. Con la lampada a petrolio in una mano, e un bastone per i serpenti, nell'altra, il guardiano notturno camminava cautamente davanti a me. Nel forte vento freddo si avvolgeva intirizzito nel lungo cappotto vecchio, con la berretta di lana intrecciata a maglia a coprirgli le orecchie. Penetravamo sempre silenziosamente nella stanza, dove oltre ai pazienti, giacevano sulle stuoie anche i loro parenti, che così si proteggevano dal freddo notturno. Alla debole luce fiammeggiante della lampada a petrolio, diluivo la medicina e la iniettavo nel sederino del bambino. Nonostante la lampada illuminasse soltanto una parte della stanza, vedevo, senza vedere, come da tutti i punti mi seguissero gli occhi delle persone che si erano svegliate. Nessuno di loro però ha mai manifestato, neppure con una sola parola, contrarietà per essere stato disturbato durante il sonno. Sfortunatamente, però, nonostante tutti i miei tentativi, dopo pochi giorni il piccolo è entrato in coma ed è morto. Ho preso la cosa come una sconfitta personale e per un certo tempo non sono riuscito a darmi pace.