Vita quotidiana a Bozoum

Senza telefono, senza televisione e senza internet, i giorni a Bozoum trascorrono più lenti e tranquilli. Alcuni sono più tristi, altri più allegri, ma la maggior parte sono uguali. Verso le sei del mattino mi sveglia la voce di una vecchia campana.

L'ospedale è tuo

A colazione non posso trattenermi a lungo. Ho fretta. All'ospedale sono nuovamente solo. Poco dopo le sette e mezzo sono già seduto nella mia piccola Citroën CV3 e parto per l'ospedale. Il viaggio non dura a lungo. Prima delle otto sono già all'ospedale dove mi arresto con l'auto all'ombra degli alberi davanti alla sala operatoria. Mentre scendo dalla vettura vedo che in mezzo al cortile, sotto le alte piante di mango, alcuni parenti stanno già preparando al fuoco la colazione per i loro ammalati, mentre altri giacciono ancora sulle stuoie o stanno chiacchierando. L'area comincia ad essere piena di vita. Indosso subito il camice bianco e mi affretto ai reparti. Comincio dalla chirurgia. Secondo l'usanza locale prima saluto tutti, dò la mano e quindi mi reco nell'ambulatorio delle visite. Mi accompagna il capo di questo reparto, Goum, un uomo simpatico, capace, su cui posso fare affidamento nel modo più assoluto. Nei tre mesi scorsi siamo diventati veramente amici. Oltre che occuparsi in modo esemplare del proprio reparto di chirurgia, pratica anche l'anestesia ai pazienti sotto intervento. E non soltanto di giorno, ma anche di notte. Più volte, dovendo operare d'urgenza di notte, mi è capitato di andare nella sua capanna a svegliarlo mentre dormiva. Però non ha mai detto una parola, si alzava volentieri, prendeva la pila e si affrettava con me all'ospedale. Solo una volta si è lamentato. “Ho tre figli, signor dottore, e vorrei averne otto. Purtroppo, credo che non potrò averne altri finché lei sarà qui”.

Una coltellata al petto

Durante la visita sono soddisfatto. Nel reparto è tutto in ordine. Sta meglio anche il giovane arabo che tre giorni fa, durante una rissa in città, si è buscato una coltellata al petto. Per curare le ferite nel polmone, ho dovuto improvvisare non poco. Con lo stetoscopio ausculto il respiro del paziente. Il polmone è già ben disteso e non vi sono tracce di presenza di sangue nella cassa toracica. A quanto pare, il mio sistema di drenaggio primitivo, ottenuto con un uretere ricavato da un dito di guanto strappato e da una bottiglia di limonata, funziona alla perfezione. Malgrado la carenza di attrezzature dell'ospedale e le cattive condizioni igieniche, la mortalità post-operatoria è ridotta al minimo. Attribuisco la cosa non tanto alle mie capacità, quanto piuttosto all'incredibile grado di immunità dei nativi e alla quasi totale assenza di malattie associate alla civilizzazione quali, ad esempio, l'ischemia cardiaca o il diabete. Dimetto due pazienti guariti. Uno di loro è un ragazzino che di recente è caduto da un albero procurandosi uno strappo alla milza. Affetto da malaria cronica, la sua milza era enorme e attaccata al fegato ingrossato. Nonostante il largo taglio che gli avevo praticato, non riuscivo a vedere le costole e, non potendo allargare il taglio fino alla cassa toracica, ho dovuto effettuare una parte dell'operazione a tasto. Quando lascio la chirurgia, vedo che sulla lunga panca di legno sotto la veranda sono seduti alcuni pazienti. Sono in attesa di una nuova fasciatura. “Non dimentichi di fasciare di nuovo le ferite”, ricordo a Goum. “Certo, li fascieremo nuovamente”, acconsente con un cenno del capo, “ad eccezione di quello là”, e indica l'estremità della panca, dove sono seduti due bambini. Uno di circa quattro anni con una ferita incerottata al collo e l'altro di nove.

Pazienti privati

Con quegli straccetti larghi, sdruciti, sporchi e rappezzati, già a prima vista destano una sensazione di estrema povertà. Mi sorridono tutt'e due furbescamente. “Non hanno niente con sé, né bende, né compresse di garza”, si lamenta il capo reparto, “e in più dicono che vogliono vedere solo lei”. “Non c'è problema”, annuisco con un gesto della mano, “li conosco bene tutti e due”. Sono il piccolo Paterne e suo fratello, del quartiere qui vicino, sotto la missione. Hanno ragione, sono davvero miei pazienti “privati”. Ricordo che circa una settimana prima, mentre stavo terminando di pranzare alla missione, Sako, il guardiano, mi aveva avvertito che avevo una visita. Davanti al cancello mi stavano aspettando proprio questi due marmocchi. Il maggiore teneva il più piccolo per mano, e quando mi ha visto ha detto con l'aria di chi è importante: “Mbi ga ti ba mo, docteur - Vengo a farti visita, dottore”. “Ngbanga, ti nie? - E perché?”, ero sorpreso. “A suku lakwe lakwe - È sempre gonfio”, mi ha spiegato il più grandicello indicando la gola del fratellino. Nella parte anteriore della gola, Paterne aveva davvero una grossa tumefazione, una ciste congenita di circa quattro centimetri di diametro. Qualcosa tuttavia non mi tornava, così gli avevo nuovamente chiesto: “Aspetta, dov'è il tuo papà?”. “È in viaggio”. “E la mamma?”. “È nel campo”, aveva risposto pazientemente il marmocchio. “E chi vi ha mandato da me?”. Il ragazzo aveva semplicemente scosso la testa ad indicare che non lo aveva mandato nessuno e, come temendo che non avessi capito, aveva tirato davanti a sé il fratellino ripetendomi nuovamente la sua preghiera: “A suku lakwe lakwe - È sempre gonfio”.

Curare il fratellino all'insaputa della mamma

Mi era tutto chiaro. Il fratello maggiore, che in assenza dei genitori si occupava del fratello minore, ritenendo che i genitori non fossero in grado di risolvere il problema dello stato di salute di Paterne, aveva deciso di prendere lui stesso in mano la situazione. “Già, però così non va. Quando la mamma ritorna dal campo dille di passare da me”, avevo concluso. La sera stessa si presenta da me una donna di mezz'età. Stava presso la porta dondolandosi sulle gambe, guardava in terra e non sapeva come cominciare. Sapeva del problema del figlio, ma non avendo i soldi né per l'operazione né per le bende, non aveva avuto il coraggio di presentarsi all'ospedale. È stata molto contenta quando le ho promesso che avrei operato gratuitamente il suo ragazzo e che le bende necessarie le avrei prese dalle mie provviste. Così è stato. Ho tolto la ciste al piccolo Paterne ed ora il fratello lo aveva riportato all'ospedale per il cambio delle bende. Questi ragazzi sono il tipico esempio di come i bambini africani, che crescono per la maggior parte sulla strada, siano presto in grado di occuparsi di sé stessi.

L'infermiere fa il lavoro del medico

Per i pazienti ricoverati è mio dovere decidere come procedere con le terapie. In tutto il resto, eccezion fatta per gli accertamenti mediante ultrasuoni e le operazioni, gli infermieri locali sono in grado di cavarsela da soli. Quindi se un paziente si presenta all'ospedale, viene visitato e curato soltanto dall'infermiere. Io lo vedo unicamente se il suo stato di salute richiede il ricovero, oppure se l'infermiere ha bisogno di consultarmi. E neppure vengo chiamato per i parti, a meno ché il parto non proceda come dovrebbe e si renda neccesario il taglio cesareo, oppure quando nella paziente è evidente una grave complicazione. Gli infermieri svolgono, di fatto, il lavoro che da noi è di competenza dei medici più giovani. È vero che il loro livello professionale è vario, ma molti di loro, grazie al loro impegno e alla pratica quotidiana, hanno raggiunto un tale grado di esperienza e di conoscenza da superare di molto il livello delle infermiere nel nostro sistema sanitario. Il problema è che il personale locale, come del resto anche negli altri ospedali statali del paese, da diversi mesi non riceve lo stipendio.

Medicina interna e AIDS

Quando arrivo a medicina interna, i miei collaboratori mi stanno già aspettando. Come in chirurgia, anche qui saluto tutti e ci stringiamo la mano. Comincia un'altra visita. Le malattie che incontro sono alquanto diverse da quelle che conosciamo in Europa. Qui curiamo gente con la tubercolosi, la malaria, la cirrosi epatica, ma soprattutto con l'AIDS. Quando ho iniziato a lavorare in questo ospedale, sono rimasto impressionato dalla rapidità con cui questa malattia si diffonde. Di casi del genere ne ho visti molti di più qui in tre settimane che in alcuni anni di lavoro negli ospedali europei. L'AIDS è sempre più diffuso. Si valuta che il 15% degli abitanti di Bozoum siano sieropositivi.

Partorire senza un soldo

Attraverso rapidamente la maternità. Nella stanza ci sono solo due giovani mamme che questa mattina hanno partorito senza complicazioni. “Signor dottore, nessuna di loro ha ancora pagato l'importo dovuto per il ricovero in ospedale”, si lamenta indignata l'assistente Regina. Mi stringo nelle spalle, impotente. “Le donne, probabilmente, sono rimaste senza soldi; gli ultimi che avevano li hanno sicuramente spesi per acquistare dei vestitini ai loro piccini”. So che i genitori, anche se sono spesso assai poveri, riescono sempre a procurarsi il corredino per i nascituri. I soldi, qui, sono un eterno problema. Poiché lo stato non passa assolutamente niente, non esiste neppure un'assicurazione sanitaria. Se qualcuno si ammala deve pagare per intero tutte le medicine e il materiale sanitario fino all'ultimo ago. E se il paziente viene ricoverato, deve inoltre sostenere tutte le spese del ricovero e dell'eventuale operazione.

I neonati

Visito i neonati. Con la loro pelle chiara mi ricordano i bambini europei. Solo tra alcuni giorni, per l'influenza del calore solare, comincerà a formarsi il pigmento nero. Il primo bambino pesa due chili e mezzo. Date le condizioni di vita in Africa, è piuttosto grassottello. Il secondo, invece, sta peggio. È nato prematuramente. La sua mamma è stata ammalata durante la gravidanza per cui non solo è piccolino, ma anche magro. Pesa un chilo e mezzo: sembra una scimmietta. Con il suo vestitino variopinto, troppo grande per lui, il berrettino, anche quello troppo grande, e i piccoli calzini, ispira una particolare tenerezza. “Riempitegli ben bene il vestitino con batuffoli di cotone”, consiglio ai parenti per i quali non è un problema procurarselo. Ce n'è abbastanza ovunque. Molti nativi lo coltivano nei loro campicelli. “E lei gli prepari la nostra incubatrice”, dico a Regina, che a sua volta manda i parenti a riscaldare al fuoco l'acqua che lei stessa poi versa, ancora bollente, in due bottiglie di plastica per limonata. Le avvolge accuratamente in stracci perché il bambino non si bruci e quindi con estrema prudenza depone tra loro il piccolo nato prematuramente. Infine avvolge le bottiglie col bambino in un panno di tessuto colorato africano, il “pagne”, per evitare che, nonostante il calore, il piccolo muoia per il freddo notturno. Ma questo bambino mingherlino è fortunato. Grazie al suo sviluppato riflesso succhiatore non dobbiamo nutrirlo con una sonda nello stomaco. Poco tempo fa non avrei creduto che bambini così piccoli e in condizioni tanto miserevoli potessero anche soltanto sopravvivere.

Morire col sorriso

Sono le nove. Devo recarmi ancora in pediatria, il reparto più affollato dell'ospedale. Nel corridoio mi sta già cercando con lo sguardo un bambino di circa cinque anni, al quale non molto tempo prima avevo operato un ascesso addominale. Mi sorride amabilmente e mi offre un frittella che il papà gli ha appena comperato. Arriva Semplice, il capo reparto della pediatria. Solita stretta di mano. “Oggi è deceduta Maria”, mi comunica tristemente. Anche se c'era da aspettarselo da un giorno all'altro, la sua morte mi colpisce profondamente perché mi ero molto affezionato a questa ragazzina. Maria, di otto anni, già da vari mesi giaceva all'ospedale con una grave forma di tubercolosi polmonare e addominale. Nonostante tutti i miei sforzi il suo stato era andato gradualmente peggiorando nelle settimane. Alla fine faticava a mangiare, a respirare, ma non ricordo che si sia mai lamentata. Ogni mattina, durante la visita, mi salutava con il suo amabile, largo sorriso e alle mie domande rispondeva sottovoce: “Yakape - Sto bene”. Negli ultimi giorni non aveva più la forza di alzarsi, ma il sorriso non era scomparso dal suo volto. Come lei, anche la maggior parte dei pazienti africani sono così. Pazienti, di poche pretese e riconoscenti per il minimo aiuto che sei stato in grado di offrirgli.

40 km a piedi con la bimba sulle spalle

Non mi sfugge che da un angolo della stanza mi sta osservando una bimbetta di quattro anni che ho operato la scorsa notte. Ieri mattina la bambina, cadendo nel campo sulla radice di un albero, si è perforata l'addome e l'intestino crasso. I suoi genitori, disperati e completamente esausti, l'hanno portata a piedi, tenendola sulle spalle, da un villaggio distante 40 km. “Tonga na nie - Come stai?”, chiedo con tono amichevole. “Nzala a sala mbi - Ho fame”, si lamenta con un fil di voce la piccola e guarda in terra provando vergogna. “Oggi non ti posso ancora dare da mangiare, ma sono contento che tu stia meglio”.

Poveri fra i poveri

Dopo le dieci mi siedo al volante della mia Citroen e parto in direzione del magazzino. Ho fretta. Mi aspetta ancora un intervento, già programmato, ha un'ernia inguinale. Poco dopo sto rovistando tra i farmaci che i missionari ricevono da amici e sponsor italiani. Trovo anche le casse che sono riuscito a procurarmi prima di partire per l'Africa. Contengono materiale sanitario e farmaci provenienti dalla Svizzera, dalla Francia, ma anche da Praga. Il tutto, messo insieme, costituisce una cospicua provvista di medicinali, siringhe, aghi, attrezzature complete per infusioni, guanti ed altri articoli sanitari. Solo grazie a questi regali ora ho la possibilità di aiutare anche coloro che davvero non hanno di che pagarsi le cure. Chiaramente, di fronte a me, tutti i pazienti si atteggiano da poveri tra i più poveri, ma poiché le provviste della missione non sono senza fondo, tocca a me valutare a chi mettere o no a disposizione i mezzi per curarsi. Spesso la dicono lunga i poveri indumenti che indossano e l'atteggiamento del paziente e della sua famiglia. Ma chi sono i più bisognosi me lo sanno consigliare soprattutto gli infermieri locali che ben conoscono le possibilità economiche dei loro vicini. Gli altri ammalati devono purtroppo comperarsi i medicinali da soli. Anche perché la loro vendita è l'unica risorsa economica dell'ospedale. Il fatto che da tempo lo stato non eroghi finanziamenti per l'ospedale, per me significa cercare non soltanto di fare in modo che tutti, anche i più poveri, ricevano l'assistenza sanitaria necessaria, ma anche di non saturare il mercato con i medicinali che di fatto mantengono a galla l'ospedale.

Due cateteri? No, anzi uno!

Goum mi aveva chiesto di aiutarlo a risolvere un problema. Nel reparto chirurgia ad un paziente era stato applicato nella vescica urinaria un catetere che non si riusciva più ad estrarre. Probabilmente si era intasato il canaletto per la liberazione del palloncino che tiene fissato il catetere nella vescica. Avevo chiesto a Goum di passarmi le forbici e con un movimento di cui avevo pratica, avevo tagliato a metà il catetere di gomma. Avendo eliminato l'ostacolo, il palloncino era scoppiato e avevo così potuto estrarre il catetere senza alcuna difficoltà. Soluzione standard europea. Goum, disperato, guardandomi con gli occhi sbarrati, aveva mandato un gemito: “Che peccato! Un attimo fa in tutto l'ospedale ne avevamo due. Ogni volta li sterilizziamo per poterli usare nuovamente. Ora invece ne abbiamo soltanto uno. Ma lo sa che lei ha distrutto una cosa preziosa?”. Fortunatamente poco tempo dopo arrivarono dall'Europa le mie casse con il materiale sanitario e ho potuto rimediare al “danno irreparabile”.

Taglio cesareo e anestesia locale per non perdere il sesto bambino

Si avvicina la levatrice: “Signor dottore, hanno portato una donna, ha le doglie da ieri”. Vado subito a visitarla. Il caso è chiaro. Ha il bacino stretto. Si deve praticare al più presto il taglio cesareo. “Kanga be ti mo - Resisti”, esorto la giovane mamma. Prendo in mano il bisturi e, solo in anestesia locale, apro l'addome e l'utero. Non appena porto alla luce il neonato, Goum inietta l'anestetico alla donna. Per il resto dell'operazione non farà che dormire. Non potevo addormentarla fin dall'inizio. All'ospedale non c'è alcuna macchina dell'ossigeno e io non potevo rischiare che al momento dell'estrazione del bambino la mamma cominciasse a vomitare nel sonno oppure che, in seguito ai farmaci somministrati dopo il parto, il bambino avesse difficoltà respiratorie. Fortunatamente l'intervento si è svolto senza complicazioni. Dopo anni, la donna ha finalmente avuto il suo primo bambino. Nei parti precedenti ne aveva già persi sei. Questa volta è arrivata all'ospedale all'ultimo momento, ma ancora fortunatamente in tempo.

I frutti di una colica biliare

Subito dopo l'operazione vado a fare i raggi X al bambino con il braccio lussato che mi sta aspettando fin dal mattino. All'ospedale l'apparecchio per i raggi X è una novità assoluta. L'ho ottenuto grazie al caso. Tempo prima avevo conosciuto il signor Buhl, l'uomo più influente della regione. È capo del programma di sviluppo DROP, finanziato dal governo tedesco, che si occupa della costruzione di strade e della ristrutturazione degli ospedali. Mi aveva mandato il suo autista ad avvisarmi che si sentiva molto male. Gli ho diagnosticato una colica biliare provocata da un calcolo. Poiché conosceva molto bene le condizioni in cui lavoravamo all'ospedale, il giorno dopo è volato in Europa. Il calcolo glielo hanno trovato davvero, glielo hanno asportato e lui, per riconoscenza, ha promesso che mi avrebbe aiutato a installare l'apparecchio per i raggi X. Si è anche offerto di aiutarmi a completare l'attrezzatura dell'ospedale. In un primo tempo avevo pensato soltanto a tre strumenti per la chirurgia, poi alla fine ho spedito in Germania un ordine per un totale di circa 50 pezzi diversi (dermatome di Humby, un set per trazione assiale, pinze per odontoiatra, ecc.) per un valore complessivo di circa 16.000 euro. Il signor Buhl ha mantenuto la promessa e ora a Bozoum abbiamo uno degli ospedali meglio attrezzati del paese.

Chirurgia pediatrica

La lastra a raggi X ha evidenziato che il bambino aveva riportato un tipo assai raro di lussazione nella zona del gomito. Non mi intendo di traumatologia infantile e non ho mai effettuato il riposizionamento di una distorsione del genere. Purtroppo la chirurgia pediatrica più vicina si trovava a Bangui, a 450 km di distanza. Mi è chiaro che i genitori non hanno i soldi per sostenere le spese del viaggio e tanto meno per le cure nella capitale. È necessario risolvere in qualche modo questa penosa situazione. Mi porto in sala il manuale di chirurgia e attenendomi scrupolosamente alle indicazioni procedo passo a passo come se stessi consultando un libro di ricette di cucina. L'operazione riposizionamento si è conclusa felicemente.

Un attimo di disperazione: il bimbo non respira più

Non dimenticherò mai un maschietto di nove mesi al quale avevo operato in anestesia totale un difetto congenito nella zona ombelicale. Poiché all'ospedale non è disponibile un respiratore, non potevo assicurargli la respirazione con un tubulo tracheale come si fa in Europa. Inoltre non mi ero accorto che prima dell'operazione la mamma lo aveva allattato. Durante l'intervento chirurgico il neonato ha cominciato a vomitare nel sonno, ha avuto un rigurgito e ha cessato di respirare. È stato un attimo di disperazione! Il piccolo non respirava ed io me ne stavo lì, dentro il camice sterilizzato, sul suo ventre aperto, annichilito. E ora? Solo pochi secondi separavano il piccolo dalla morte. L'ho afferrato in fretta per le gambe e l'ho sollevato verso il soffitto. È successo un disastro. Gli strumenti sterilizzati sono caduti in terra, le budella sono fuoriuscite dalla ferita e l'operazione sterilizzata è diventata di colpo non sterilizzata. A un tratto, però, il rigurgito ha liberato le vie respiratorie e il bambino ha cominciato a tossire. Goum gli ha subito pulito la bocca con un tampone, io mi sono fatto portare nuovi strumenti, ho sciacquato col liquido della sterilizzazione le budella e ho portato a termine l'operazione interamente non sterilizzata. Non mi restava che somministrare al bambino gli antibiotici e pregare perché in lui non sopravvenisse una polmonite o un'infiammazione al pancino. Fortunatamente è andato tutto bene. Dopo una settimana gli ho tolto i punti e l'ho rimandato a casa guarito.

Controvisite serali

Dopo avere cenato alla missione, ritorno all'ospedale per controllare i pazienti che ho operato oggi. All'ospedale non c'è luce. Sono già due mesi che a Bozoum l'illuminazione pubblica non fuziona. Solo dalla casupola dove c'è il servizio notturno, la debole luce di una lampada a petrolio illumina a tratti, balenando, le aperture delle finestrelle chiuse. Tuttavia la visibilità è buona. Tutto il cortile è pervaso dallo splendore del plenilunio, che si riflette sui tetti di lamiera dei padiglioni. Verso il cielo sereno si proiettano, scure, le gigantesche chiome dei vecchi alberi di mango. Tutt'intorno è quiete. Entro in chirurgia: “Barala kwe - Salve a tutti voi”, dico rivolgendomi alle nere sagome che giacciono in terra. Sono i parenti degli ammalati. “Bara mingi mingi, mon docteur - Anche noi la salutiamo molto, dottore nostro”, si sente rispondere nel buio da ogni angolo. Anche nel buio mi dirigo con sicurezza verso i miei pazienti. Con la pila in mano controllo le loro ferite, i drenaggi e il loro stato di salute complessivo. La donna, dopo il parto cesareo, si è già ripresa dall'anestesia. Il neonato giace accanto a lei avvolto in un panno. “Che nome le avete dato?”, chiedo ai genitori. Invece di rispondermi, mi sorprendono con la domanda: “E lei come si chiama, dottore?”. “Marcel”, rispondo con un sorriso. “Allora si chiamerà Marcelline”. Così, da oggi, in Africa c'è una Marcelline in più. Anche il paziente sottoposto all'intervento di ernia e il bambino con il braccio lussato stanno meglio. Posso andare tranquillamente a dormire. Ritorno alla missione camminando lentamente sotto il chiarore lunare. Dalla cittadina, nella vallata, si odono canti e suoni di tam-tam. Un'altra giornata è terminata.