Durante il mio soggiorno nella Repubblica Centrafricana, non ho mai incontrato personalmente un mago. Solo una volta
sono riuscito ad esaminare alcuni oggetti che gli stregoni usano per la magia nera. È successo circa sei mesi dopo il
mio arrivo, mentre stavo attraversando la città di Berberati che giace ai limiti della foresta a sud di Bozoum.
In quella missione avevo incontrato un francescano già avanti con gli anni, padre Umberto, uno dei missionari più
anziani del paese, arrivato 50 anni prima. Per molti anni aveva operato al nord sulle montagne, in una zona di confine
col Ciad, dove vive la tribù Pana. Come sacerdote aveva trascorso tutto il tempo con gli indigeni conquistandosi la loro
fiducia. Grazie a ciò, aveva avuto la possibilità di conoscere molte delle loro tradizioni e di comprendere il loro modo
di pensare.
Oltre alla sua vocazione di missionario, da decenni si dedicava anche all'etnografia. Per anni ha raccolto
e registrato racconti dei vecchi capi tribù dei villaggi, li ha messi a confronto e ha elaborato uno studio in cui
descrive gli inizi della colonizzazione nelle zone settentrionali del paese al principio del ventesimo secolo. Lo studio
raccoglie molti racconti di testimoni oculari. Altri cenni a questo periodo storico si possono trovare nei rapporti degli
ufficiali delle unità coloniali francesi, ma questi non possono essere considerati del tutto obiettivi.
Oltre ad accumulare le testimonianze orali dei nativi, padre Umberto colleziona anche vari oggetti tradizionali.
In cinquant'anni ha creato una collezione di armi, gioielli artigianali, capi di abbigliamento, residui di maschere,
di antichi mezzi di scambio.
Durante il nostro incontro gli ho detto che conoscevo la sua passione per l'etnografia e ho elogiato la sua collezione
che tempo prima avevo avuto occasione di ammirare a Yolé.
“Se la cosa ti interessa, posso farti vedere un'altra parte della collezione, quella che non è mai stata esposta al
pubblico”. Mi ha condotto nel cortile della missione dove ha aperto un grande container metallico. L'interno era un
piccolo museo.
L'anziano missionario comincia a indicare i singoli oggetti: “Quelli sono gli strumenti di lavoro dello stregone africano”.
Poi, afferrandone uno: “Ecco, ad esempio, questa ciotola di pietra. Serviva per la preparazione dei veleni. Dio solo sa
di quante morti è responsabile. Oppure questa pietra. Vedi, sui tre angoli sono scolpite delle teste. Lo stregone
lo poneva al crocevia di fianco al villaggio perché le teste seguissero chiunque passava di là, poi di tanto in tanto
si recava sul luogo per 'ascoltare il rapporto'. Grazie alle informazioni che riceveva dalla 'sua pietra',
era praticamente impossibile, nel villaggio, nascondergli qualcosa”.
Non meno interessanti erano alcune figure dalle teste col becco al posto del naso.
“Sono le statuette di uno
spirito maligno chiamato likundu”, mi ha spiegato il francescano. “Lo stregone di notte le rianimava e loro
eseguivano docilmente i suoi ordini”.
Ma ecco che aveva già in mano un'altra statuetta enigmatica.
“Perché il bambino cessasse di crescere, lo stregone
la seppelliva presso la capanna in cui il piccolo viveva”. Padre Umberto mi ha così iniziato a tanti, tanti altri segreti.
Infine ha scorso con lo sguardo le statuette nefaste che ancora restavano e ne ha scelta una: “Questa serviva a
far partorire alle donne dei bambini deformi. Come vedi, gli stregoni avevano soltanto cose utili e pratiche”,
conclude il prete con amara ironia. Afferro ad uno ad uno quegli oggetti da museo e li osservo attentamente da tutte
le parti. “Sono cose vecchie, forse oggi gli africani non ci credono più”.
Il francescano sorride: “Ti sbagli, in questo campo non è cambiato niente”.
Quando chiudiamo il container, sono davvero contento che padre Umberto tenga queste cose sotto chiave.
Nello svolgere la mia attività quotidiana, ho avuto spesso a che fare con le conseguenze delle cure tradizionali.
Si trattava principalmente di scarificazioni, numerosi taglietti nella parte sovrastante la zona dolente.
Queste cicatrici mi sono state più volte di aiuto nel determinare la diagnosi. Quando, ad esempio, mi capitava di
trovare in una donna numerose scarificazioni sull'addome inferiore, nella maggior parte dei casi si trattava di
un'infezione cronica del bacino. Se un uomo aveva cicatrici sul fianco nella parte inferiore del torace avrei potuto
scommettere che aveva avuto una polmonite o una pleurite.
Nei nomadi musulmani della tribù M'Bororo,
invece dei taglietti, nella pelle notavo frequentemente bruciature circolari provocate da corna di vacca riscaldate.
In pediatria numerosi bambini avevano attorno ai fianchi o alle caviglie sottili cinturini di pelle con “gri-gri” - piccoli amuleti contro le forze del male. All'ospedale il personale sanitario, nella maggior parte dei casi, prendeva le distanze da queste pratiche.
L'infermiere (secouriste) di un villaggio vicino si è fratturato una gamba all'altezza della coscia.
Il secouriste è una persona con formazione sanitaria superficiale, una conoscenza non approfondita della pratica medica,
ma in grado, nel villaggio in cui vive, non solo di guarire le malattie più leggere, ma anche e soprattutto di inviare
all'ospedale i casi più gravi.
Probabilmente l'attività di infermiere non gli rendeva abbastanza, così aveva deciso di
fare il cercatore d'oro. Ma la sorte gli è stata avversa. Mentre scavava, la terra gli era franata addosso. Al mattino
la sua famiglia lo aveva portato all'ospedale. Poiché mi apprestavo ad operare un paziente, mi sono limitato a dare una
rapida occhiata all'infermiere dicendo semplicemente: “Qualcosa faremo senz'altro”.
Quando sono ritornato dalla sala
operatoria non c'era più. La cosa mi è parsa strana e ho incaricato i miei collaboratori di accertare quanto era successo.
La mattina del giorno dopo incontro Goum: “Per un qualche motivo ha pensato che volevamo amputargli la gamba”, mi spiega,
“in più non aveva neppure i soldi per le medicine. I suoi parenti lo hanno affidato alle cure di un marabù,
un guaritore musulmano, che gli ha applicato sulla coscia delle foglie curative e poi gliel'ha immobilizzata
con dei pezzetti di legno”.
Mentre parla Goum scuote incredulo il capo rivolgendomi uno sguardo interrogativo.
“Così non va bene”, constato con disappunto, “in questo modo l'osso gli crescerà nella posizione sbagliata e avrà
la gamba più corta vita natural durante”. “Lo so”, annuisce il responsabile della chirurgia, “ed è pure un nostro
collega. Mica possiamo lasciarlo in questo stato”. “Credi che il marabù rinunci tanto facilmente al suo cliente?”,
replico. Goum assume per un attimo un atteggiamento pensoso, poi sorridendo dice: “Lasci fare a noi”.
Il giorno dopo l'infermiere era nuovamente all'ospedale.
“Come ci siete riusciti?”, chiedo con stupore a Goum. “È stato semplice. Siamo andati dal
marabù e lo abbiamo assicurato che non avevamo nessuna intenzione di riavere il suo paziente ma che
pretendevamo da lui il versamento della somma di 60.000 CFA (circa 100 euro ) per coprire le spese sostenute
inutilmente dallo Stato per la formazione dell'infermiere. Perché è chiaro che con una gamba più corta non sarebbe
stato più in grado né di camminare né di lavorare. Il marabù allora ha convinto i parenti a riportarlo all'ospedale
e ha aggiunto che non intendeva avere più niente a che fare con loro.