A caccia del serpente

Il mio “braccio destro”, il tecnico superiore dell'ospedale, Albert, è originario di Nola, una cittadina in mezzo alle foreste nel sud del paese. È cresciuto tra gente che va regolarmente nella foresta a cacciare gli animali e a raccogliere frutti, come per secoli avevano fatto i loro antenati. Ha molti amici anche tra i pigmei locali, che non conoscono affatto l'agricoltura e vivono esclusivamente di caccia.
Più volte mi ha invitato a Nola e mi ha raccontato che i nativi, in primo luogo i pigmei, considerano la foresta casa propria e non accettano da parte delle autorità alcuna imposizione su che cosa sia lecito cacciare e che riescono con la massima facilità a cavarsela anche con gli animali di grossa taglia. Ma a differenza dei bracconieri non uccidono questi animali in grande quantità. La loro maggiore fonte di sostentamento sono innanzitutto i frutti degli alberi, gli insetti, i bruchi e, non ultimi, anche i pesci. A rendere più varia la loro lista dei cibi, li aiuta efficacemente la balestra con le frecce avvelenate con cui cacciano con successo soprattutto le scimmie.

Una gamba nella buca del serpente

Una pratica assai insolita degli indigeni di Nola è la caccia di grossi serpenti boa che vivono in giganteschi covi sotto terra. Per prima cosa il cacciatore si spalma sulla gamba una densa poltiglia di arachide fino all'inguine, la infila nella tana e rimane in attesa. Dopo un certo periodo di tempo il serpente si avvicina strisciando e comincia a inghiottirgli la gamba.
Com'è noto, questa razza di serpenti ha la straordinaria capacità di spalancare le mandibole in modo tale da inghiottire le prede intere. Nell'apparato digerente, poi, questi vengono gradualmente digeriti dagli enzimi. Per questo motivo la poltiglia di arachide ha lo scopo di proteggere in modo affidabile la pelle del cacciatore. Prima che il serpente inghiottisca la gamba fino all'altezza della coscia, trascorrono alcune ore.
Alla domanda come si sente il cacciatore in quei momenti, Albert risponde: “Prova un po' di calore e sente la stretta, ma è una cosa che si può sopportare”. Poi il cacciatore estrae il coltello ben affilato, lo introduce nell'angolo della bocca del serpente e lo apre in senso longitudinale come se aprisse un paio di pantaloni nel punto della cucitura. In tal modo lo uccide senza neppure danneggiarne la pelle, che può vendere al mercato a un buon prezzo.

Chiodi per catturare l'elefante

Molto barbara mi sembra anche la caccia agli elefanti della foresta. Poiché i neri non hanno fucili e le loro lance non sono sufficienti ad abbattere gli elefanti, hanno inventato un altro modo, più perfido e insidioso, di cacciare. Su un'asse di legno piantano lunghi chiodi che con le loro punte acuminate penetrano fino dall'altra parte, da dove sbucano pericolosamente. L'asse così approntata viene poi interrata nel fogliame putrefatto sulla pista degli elefanti.
Appena l'elefante calpesta i chiodi, col suo peso se li conficca nella pianta del piede e non riesce più a liberarsi dall'asse che gli procura un dolore continuo mentre cammina. L'elefante si muove sempre meno, non riesce più a procurarsi il cibo in quantità sufficiente e piano piano si indebolisce. I cacciatori ne seguono le tracce e quando, oramai senza forze, non è più in grado di difendersi, lo uccidono con le lance. In generale però si può dire che il modo classico di cacciare in Africa va gradualmente scomparendo e viene praticato soltanto in campagna nei piccoli villaggi e nelle foreste. La gente che vive nelle città non sa più cacciare in questo modo.
Ma i centrafricani non cacciano tutti gli animali. Ne è un esempio il camaleonte. Gli indigeni lo considerano un animale “nefasto” che porta solo sfortuna e disgrazie. A nessun nero passerebbe neppure per la mente di toccarlo, e tanto meno di mangiarlo.