Il carcere di Bozoum

Di buon mattino, mi affretto di nuovo verso l'ospedale. Davanti alla casetta della pediatria mi sta aspettando il mio collega. Non è più il dottor Baté. Questi è riuscito a ottenere un posto ben remunerato da impiegato nella città vicina, e ha lasciato l'ospedale. Lo ha sostituito un laureato fresco fresco della facoltà di medicina dell'università di Bangui, il dottor Mathurin Youfegean. Questo giovane intelligente ama fare bene le cose. Per questo la nostra collaborazione funziona a meraviglia. Dal suo modo di fare si intuisce che gli stanno molto a cuore il destino e il buon funzionamento dell'ospedale. “Marcel”, mi chiama, “prima di mezzogiono ho circa dieci pazienti prenotati per l'ecografia all'addome. Verrai?”. “Certo che verrò. Prima però devo fare ancora due piccoli interventi. Aspettami prima di cominciare”.

Medico e insegnante

Lavorando all'ospedale mi sono dato un po' per volta delle priorità. Nei primi mesi mi sono limitato ad esercitare la pratica medica con la massima applicazione, ma poi mi sono reso conto che è molto meglio trasmettere poco per volta quanto più è possibile delle conoscenze e delle esperienze maturate in Europa ai miei colleghi e collaboratori centrafricani. Si può dire che a Bozoum, oltre ad esercitare la mia professione di medico, sono diventato anche insegnante. Così, almeno, in Africa rimarrà di me qualcosa di duraturo. Uno dei miei compiti, ad esempio, è di insegnare a Mathurin come usare l'attrezzatura per l'ultrasuono. Sta facendo progressi. Quando me ne andrò gli lascerò anche il mio manuale francese di istruzioni per l'uso. Con Mathurin sono arrivati all'ospedale altri due medici. All'inizio li facevo assistere agli interventi, poi hanno cominciato a dare i punti e ora cominciano a operare un poco con me. Sono tutti e due molto capaci, specialmente Mermoz. Si interessa di tutto e la cosa mi fa piacere. Siamo una buona squadra. In questo periodo abbiamo ogni giorno molto lavoro. Tra la gente si è sparsa la voce che presto me ne andrò e la cosa non è rimasta senza risonanza. Ora giungono all'ospedale da ogni parte per farsi operare dal dottore bianco. Arrivano non soltanto da Bozoum e Bocaranga, ma anche da Carnot, distante centinaia di chilometri, e addirittura anche dalla capitale. Ci sono tra di loro non soltanto i ricchi, che costituiscono per l'ospedale un'entrata, ma anche i poveri, che non hanno niente, ma sanno che non li respingerò. I malati sono così aumentati, che per questo mese ho dovuto addirittura procurarmi un quaderno dove registrare le prenotazioni.

Il carcere di Bozoum

Quando arrivo in chirurgia, Goum mi sta già aspettando. “Non hai per caso qualche benda? Ne avrei bisogno per medicare questo detenuto”. Lo guardo. È un uomo di circa quarant'anni e ha una grande piaga in una gamba. “Ma certo”. So bene com'è lo stato di detenzione a Bozoum. Non era la prima volta che un detenuto veniva all'ospedale per farsi medicare, e nessuno era scortato dalla polizia. La cosa mi era parsa strana, così ero andato a vedere il carcere. Il carcere si trova nell'estrema periferia della città. È formato da alcune casette in muratura a pianterreno, cinte da un alto muro la cui sommità è orlata di pezzi di vetro. Solo una piccola casa ha ancora il tetto di paglia. L'ambiente in cui si trovano i detenuti è veramente miserevole. Non hanno niente, non hanno un tetto sopra la testa né un boccone da mettere sotto i denti. Anche quando piove dormono sulla nuda terra e sotto il cielo aperto. E poiché lo Stato dà per le carceri lo stesso contributo che dà per la scuola e la sanità, non c'è da stupirsi che i condannati non ricevano niente da mangiare.

Un carcere a porte aperte

Perché non muoiano di fame, qui funziona un sistema assolutamente insolito. Mi aveva sorpreso il fatto che in carcere i detenuti trascorressero in pratica soltanto la notte. Chi si aspettasse delle guardie carcerarie severe è destinato a rimanere profondamente deluso. Al mattino il portone del carcere viene aperto affinché il detenuto possa, per conto proprio e senza scorta della polizia, recarsi in città e provvedere al proprio sostentamento. Durante la giornata alcuni lavorano e si guadagnano il cibo onestamente. Altri si arrangiano diversamente, alla loro maniera. Insomma, bisogna pur mangiare. È curioso che la sera tutti ritornino disciplinatamente in carcere. Non capisco perché non fuggano. Non riesco a immaginare cosa potrebbe succedere da noi. Sono sicuro che fin dal primo giorno in tutte le nostre prigioni regnerebbe il vuoto. Una cosa è certa. Spesso i condannati vengono da lontano per cui sono completamente tagliati fuori dalle loro famiglie e dal loro ambiente. Senza pensarci due volte porgo a Goum alcune bende. Conservo anche un altro ricordo della prigione di Bozoum. In occasione della mia visita avevo conosciuto una guardia carceraria. Di lì a poco gli nacque un figlio e venne alla missione per chiedermi se ero disposto a tenerlo a battesimo, perché intendeva dargli il mio nome. A una simile richiesta non si può opporre un rifiuto, era un grande onore. Di solito i centrafricani scelgono i padrini solo nella cerchia dei propri familiari.

Operare il figlioccio

Quando il bambino aveva circa due settimane, padre Marcello lo battezzò alla missione. Il rito fu assai semplice, ma bello e gioioso. La vicenda però non finì lì. Nella notte dello stesso giorno mi chiamarono dall'ospedale per andare a visitare un bambino ammalato. Quale non fu la mia sorpresa nel constatare che si trattava del “mio” Marcellino. Piangeva e non c'era verso di zittirlo. Mi accorsi che aveva l'ernia strozzata e nonostante tutti gli sforzi non riuscivamo a farla rientrare. Unica soluzione possibile era intervenire immediatamente. Ma nessuno aveva mai operato un bambino tanto piccolo e io stesso non l'avevo mai fatto in vita mia. Come addormentarlo, in modo che i farmaci destinati agli adulti non gli nuocessero? I miei collaboratori Goum e Albert, come pure il mio collega africano, non volevano avere niente a che fare con l'intervento. Sentivano che poteva non riuscire e ne temevano le conseguenze infauste. Il padre del bambino aveva proposto di noleggiare egli stesso una vettura e di trasportare il piccolo fino alla capitale. Ma avrebbe potuto essere tardi. La mamma, in silenzio, si stringeva al petto il suo piccino, che si lamentava, e non osava intervenire nella discussione tra gli uomini. Non avevo nessuna voglia di operare. Era chiaro che si trattava di una questione assai rischiosa perché l'intervento a un neonato puó essere fatto solo dalle mani di un chirurgo pediatrico e non era certo il mio caso. Per di più era in gioco la vita del mio figlioccio! Nel pomeriggio gli avevo fatto da padrino e la sera mi sarebbe potuto morire in sala operatoria! Ovviamente potevo rinunciare al caso e lasciare morire il bambino in seno alla sua famiglia, di questo nessuno mi avrebbe incolpato e neppure l'ospedale. Il bambino sarebbe morto in casa. Ma se operavo il piccino e quello poi non sopravviveva sarei andato sicuramente incontro a grossi problemi, non soltanto io, ma anche i miei aiutanti. Feci ricorso a tutta la mia autorità per convincere i miei collaboratori ad affrontare la situazione insieme a me. Avevo deciso di rischiare. Innanzitutto legammo strettamente il bebé per impedirgli di girarsi, gli iniettammo un sedativo nel sederino, poi gli praticammo l'anestesia locale nella zona dell'intervento. Naturalmente questo sistema primitivo in Europa non si usa più, ma a me fu di grande utilità. Nonostante non avessi gli occhiali con le lenti di ingrandimento e il taglio non fosse molto più lungo del pollice di un adulto, l'operazione andò a buon fine. Provai una gioia immensa.

Il regalo del battesimo: una nuova vita

A Marcellino per il suo battesimo non potevo fare un regalo migliore. Solo a pensarci dopo, mi sono reso conto dell'enorme fortuna che avevo avuto. Per molti mesi, finché la famiglia della guardia carceraria non si trasferì a Bangui, la mamma, riconoscente, mi portò più volte all'ospedale il mio piccolo figlioccio perché vedessi come cresceva sano. Prima di mezzogiorno termino finalmente in sala operatoria e vado da Mathurin che ha già cominciato a effettuare le ecografie. La piccola attrezzatura per l'ultrasuono rappresenta, nel nostro ospedale, il colmo della tecnica. E non solo nel nostro ospedale. Per centinaia di chilometri in lungo e in largo non esiste nessun'altra attrezzatura del genere. Ci serve per ottenere preziose informazioni soprattutto durante le visite ginecologiche o prima del parto. Tra i locali gode di una particolare predilezione, specialmente tra le donne. Alcune di loro credono addirittura che curi la sterilità. Oggi Mathurin usa l'ecografo nell'ambito dei suoi consulti ginecologici. Se la cava molto bene. Mentre sto entrando sento come conclude la sua visita, tranquillizzando una giovane donna: “Non abbia paura, lei non è ammalata, semplicemente avrà un bambino”. La donna è raggiante. In Africa i bambini sono sempre i benvenuti. “Vada dall'ostetrica Regina, la terrà costantemente sotto controllo durante la gravidanza”. Da queste parti è un'assoluta rarità! La stragrande maggioranza delle future mamme non si reca ai controlli durante la gravidanza e solo una minima parte di esse partorisce all'ospedale. Ma questa donna è di famiglia ricca e può permettersi un'assistenza continua.

La quarta moglie

Mathurin mi indica un'altra paziente: “Un mese fa ho curato a questa donna un'infezione agli organi genitali. Ora è di nuovo qui”. “Anche suo marito si è sottoposto a terapia?” chiedo alla donna. “Sì”, mi risponde sbrigativamente. “Mah, la cura dovrebbe fare effetto”, penso. Ad un tratto ho un'intuizione: “E suo marito ha altre mogli?”. Annuisce: “Altre tre”. “Così non può andare”, scuote sconsolatamente il capo Mathurin: “Non ha senso che io le faccia un'altra prescrizione. Se vuole guarire deve per prima cosa mettersi d'accordo con suo marito e le altre mogli, poi venga da me con tutta la famiglia”. Quando la paziente esce chiedo al mio collega: “Pensi che ritornerà?”. “Non so”. Mathurin si stringe nelle spalle. “Qui gli uomini fanno quello che vogliono”. Ha ragione. Ne so qualcosa anch'io.

Intervento via telefono

Ricordo il caso analogo di una donna a cui avevo prescritto una terapia antibiotica insieme al marito. Di lì a poco la paziente si era nuovamente presentata all'ospedale con gli stessi disturbi. Alla fine aveva ammesso che il marito si era fumato la ricetta. Aveva utilizzato il foglietto per farsi una sigaretta e aveva aspirato con grande voluttà. Dopo questa faticosa giornata, trascorsa prevalentemente in sala operatoria, vado a controllare la medicazione di un ragazzino. Si tratta di un caso particolarmente interessante. Anni prima era caduto nel fuoco riportando gravi ustioni a una mano. Col passare del tempo le ustioni si erano rimarginate ma le grosse cicatrici gli impedivano di muovere le dita. Era necessario un trapianto di pelle, o qualcosa del genere. Poiché non sono un chirurgo plastico, non avevo idea di cosa fare. Allora mi ricordai di aver conosciuto a Lione, durante il corso di medicina tropicale, un chirurgo specialista delle mani. Trovai il suo numero telefonico sull'agenda e a un anno di distanza dal nostro incontro, tramite il signor Buhul, gli inviai un fax nel quale gli descrivevo il caso. Non so se si ricordava ancora di me, ma mi rispose immediatamente, descrivendomi per filo e per segno come procedere nell'intervento. Soltanto grazie alla sua disponibilità, avevo potuto aiutare il ragazzo.