A passeggio nella foresta

Con agilità la nostra guida, un pigmeo, salta dal cassone del camioncino e si fa strada nel fitto della boscaglia. Gli alti cespugli gli arrivano fin sopra le spalle. Poco dopo solleva una sbarra di legno malandata che è la porta d'ingresso del parco nazionale Dzanga-Sangha. Con un gesto della mano ci fa segno che possiamo andare. Procediamo molto lentamente. Dall'alto e da tutte le parti, la foresta protende verso di noi le sue lunghissime dita, i rami che si richiudono dietro di noi come una cortina. “Benvenuti nel Jurassic Park”, si lascia sfuggire Aurelio al volante. Poi subito aggiunge: “Aspettiamo che la nostra guida si sieda nuovamente al suo posto, poi possiamo continuare”. Si vede che è piovuto da poco. La strada è piena di fango rosso e di pozzanghere profonde. Procediamo a passo d'uomo. Le ruote scivolano e dagli alberi ci piovono addosso abbondanti cascate d'acqua. Ogni momento ci impantaniamo nel fango e avviamo la trazione su tutte e quattro le ruote. Nonostante tutte queste sofferenze, continuiamo, seppur lentamente, ad andare avanti. Dopo circa un'ora di percorso snervante, la guida ci comunica di fermarci battendo sul tetto. In auto è impossibile.

Il colore della foresta

Dobbiamo continuare a piedi. Scendo dalla vettura e subito mi pianto nel terreno umido e fangoso. Tutt'intorno è scuro. Dalle fronde degli alberi, che sopra di noi formano la volta maestosa di una gigantesca chiesa gotica, ci cadono addosso pesanti gocce di pioggia. Nella foresta la stagione delle piogge dura tutto l'anno. Oggi, col tempo, siamo fortunati. Per il momento non piove. Mi guardo attorno con curiosità. Ci troviamo in una piccola radura dove la strada compie un ampio arco e quindi torna indietro su sé stessa. Attorno a noi svettano alberi maestosi coperti di liane. Fino ad ora avevo creduto che la foresta tropicale abbondasse dei vistosi colori delle splendide orchidee selvatiche, ma non è vero. Cerco inutilmente un colore diverso dal verde. Ma anche il verde mi affascina, soprattutto per le sue sfumature, il verde chiaro dell'erba che germoglia, e il verde scuro dei nostri vecchi boschi di abeti. Respiro profondamente. Sento l'odore umido del fogliame in decomposizione mescolarsi con una varietà di odori sconosciuti, che ricordano vagamente l'odore di un orto coltivato a verdure. Attorno a noi la foresta si estende per centinaia di chilometri in tutte le direzioni.

Una delle zone meglio conservate del pianeta

Dall'altopiano di Bozoum siamo giunti fin qui esclusivamente su strade di terra battuta, malamente agibili, sulle quali abbiamo percorso circa 600 km. Siamo andati sempre a sud e in discesa. Mai prima d'allora avevo sperimentato un pendio talmente lungo verso il centro della terra. Non cesso di stupirmi. Sembra di essere alla fine del mondo. Da qui, verso sud, si può continuare soltanto a piedi oppure in piroga navigando sul fiume Sangha. Là dove la Repubblica Centrafricana confina con il Congo e con il Camerun, questa parte del bacino congolese che si trova tra i fiumi Sangha, Lobaye e Oubangui è considerata da alcuni studiosi di scienze naturali la zona di foresta fluviale meglio conservata del nostro pianeta e contemporaneamente luogo bianco nella mappa, luogo cioè che a tutt'oggi è stato studiato pochissimo. Il parco nazionale di Dzanga-Sangha, dove appunto ci troviamo, si estende fino al limite settentrionale di questo territorio. Ma non si tratta affatto di un safari ad uso e consumo dei turisti, perché nella Repubblica Centrafricana di turisti non ne vengono. Qui vivono animali che difficilmente si possono vedere in altre parti del mondo, elefanti della foresta, antilopi bongo, gorilla delle pianure…

Un pigmeo ci guida nel parco

Le leggende dei pigmei Ata, che vivono in questa parte dimenticata del globo, narrano di un animale gigantesco, un mostro preistorico in attesa di essere scoperto. Gli indigeni lo chiamano “mokele”. Secondo i loro racconti, ricorda, per la sua forma, un incrocio tra un rinoceronte e un dinosauro. Questo enorme erbivoro sarebbe in grado di uccidere anche un elefante. “Ala ma mbi - Ascoltate”, è la voce della nostra guida, il pigmeo. Alto circa 155 cm, segaligno, ha sopracciglia prominenti e grandi occhi neri infossati. Indossa una camicia chiara, pantaloni corti e a tracolla porta un machete. Anche se non conosce il francese, l'amministrazione del parco nazionale lo impiega volentieri perché, come tutti i pigmei, nella foresta si trova come a casa propria. Procede davanti al nostro gruppetto e con un largo sorriso ci avverte, in sango, di essere prudenti. “Se volete che la nostra escursione arrivi a buon fine, da questo momento dovete osservare il silenzio assoluto. La foresta è talmente fitta che non vedreste un elefante neppure a tre metri di distanza. Per questo io devo sentire quello che succede intorno. Guardate con attenzione in alto, tra i rami, se non vi sono serpenti e anche sotto i piedi, per non calpestare un sentiero di formiche nere. Se incontrate un gorilla, fermatevi, accoccolatevi, non muovetevi e soprattutto non fissatelo negli occhi. Così vi lascerà in pace. Se ci imbattiamo in un elefante, fate come me”. Tace un attimo, poi continua: “Ora procederemo per alcuni chilometri sulle piste degli animali fino a una radura chiamata, nella nostra lingua, “bai”, dove scaturiscono sorgenti salate. Lì si trova un piccolo osservatorio di legno, su cui saremo al sicuro dagli animali. Ma il percorso per arrivarci è rischioso. Nei paraggi si muovono numerosi animali che vanno a leccare il sale. La prudenza, quindi, non è mai troppa. E ora, se siete pronti, possiamo metterci in marcia”. Rivolgo un'occhiata agli altri. C'è l'insegnante di Bozum, Francesca, Angelo, il dentista di Bouar, Stefania, insegnante di liceo alla Yolé, e padre Aurelio, anche lui dalla Yolé. Tutti, tranne me, sono italiani. Da varie settimane abbiamo programmato insieme questa escursione e insieme ne sosterremo le spese.

Il sentiero nel fiume

La guida parte in scioltezza. Va avanti per prima. Si fa strada col machete e noi lo seguiamo, in fila. Nonostante sia il più piccolo di noi, abbiamo tutti un bel daffare per mantenere il suo passo. Alla fine della pista ci conduce sulla sponda di un fiumiciattolo. “Cammineremo in acqua, altra strada qui non c'è”, ci comunica e comincia a guazzare controcorrente. Mi tolgo le scarpe. L'acqua è gradevolmente calda e il fondo soffice. Cammino comodamente scalzo e devo riconoscere che la nostra guida l'ha pensata davvero bene. Qui si cammina molto meglio che sul sentiero stretto e pieno di radici e di rami. Sulle rive del fiumicello noto fossette circolari piene di acqua. “Andoli - elefanti”, fa notare il pigmeo indicando le grandi impronte. Tra queste si vedono di tanto in tanto mucchi di escrementi. Alcuni sono ancora freschi. Non c'è dubbio che gli elefanti siano vicini. Dopo avere guazzato nell'acqua per alcune centinaia di metri arranchiamo nuovamente verso la sponda e riprendiamo a farci strada nella foresta. D'improvviso la guida si arresta. Con un rapido gesto della mano ci ferma. Teso, è in ascolto di uno scricchiolìo lontano. Dopo un attimo agita quasi con noncuranza la mano e con sollievo aggiunge: “Macaco”. Dopo circa un minuto, in alto sopra di noi, tra i rami saltella davvero una scimmia. È sorprendente come possa determinare dal solo rumore di quale animale si tratta.

I laghetti salati e il bagno degli elefanti

Finalmente arriviamo ai limiti della radura. Quando saliamo nella postazione di osservazione alta sei metri, si apre davanti a noi una visuale fantastica. Quasi da togliere il respiro. In uno spiazzo dal diametro di circa mezzo chilometro, circondato da un enorme muro di giganteschi alberi della foresta, si trova un sistema di laghetti salati collegati tra di loro da ruscelletti. E lì si lavano e seccano il sale circa venti elefanti, adulti e piccoli. A rispettosa distanza da loro stanno distesi i bufali e trotterellano le antilopi. Ad un tratto sopra le nostre teste passa uno stormo di alcune centinaia di pappagalli variopinti. Ammiro affascinato questa spettacolare esibizione della natura. Forse in nessun'altra parte del mondo è possibile osservare altrettanto facilmente questi animali. Fino alla metà del ventesimo secolo si credeva che in queste foreste vivessero gli elefanti “pigmeo”. Solo successivamente, con la scoperta di queste saline, dove gli animali possono essere osservati con facilità, si scoprì che non si trattava di una nuova razza di elefante africano, ma soltanto di un comportamento diverso dei pachidermi. Infatti nelle savane gli elefanti si mantengono in branchi per difendere i loro piccoli dai felini, ma qui nella foresta l'elefante non ha alcun nemico, per cui i giovani elefanti vagano spesso da soli. La leggenda dell'elefante pigmeo era dunque basata sugli incontri casuali con i piccoli di elefante. All'interno della radura echeggiano i barriti degli elefanti e il gorgoglio delle proboscidi sott'acqua. Mentre alcuni elefanti arrivano nella radura, altri si perdono nuovamente nel folto impenetrabile della foresta tropicale. Tutti scattiamo fotografie e non ci rendiamo conto che il tempo trascorre in fretta. Non ci accorgiamo neppure che la volta del cielo si è oscurata e sulla foresta è calata la sera. Il pigmeo ci avverte che è giunto il momento di fare ritorno. Improvvisamente cominciano a caderci addosso le prime gocce di pioggia. In un attimo la pioggerella si trasforma in un violento acquazzone tropicale. Il terreno di botto diventa fanghiglia. Ho soltanto un paio di scarpe e siccome non ho affatto intenzione di distruggerle, preferisco camminare scalzo come la nostra guida. Ho la barba incolta, sono tutto inzuppato e inzaccherato di fango dalla testa ai piedi. Mantenersi in ordine e puliti nella foresta è praticamente impossibile.