Cosa cerca un etnolgo?

Ero venuto per iniziare una ricerca sulla società Tangba : tre villaggi arroccati sulle colline.. Sfumature giallastre appena percettibili tra il verde della vegetazione. Lasciata la strada principale si imbocca una pista irta di sassi. Poi la pista si riduce ad uno stretto sentiero. Tinga Sawa, il capo villaggio, mi aveva accolto con grande ospitalità assegnandomi una capanna nel cortile dei suoi figli maggiori…Ero combattuto tra il fascino della nuova esperienza e l’angoscia e la solitudine che stavano salendo. La giornata passava in fretta, sempre a correre dietro a uno e all’altro, ripetendo a tutti le stesse domande.

Poi la sera

Il villaggio annegava in un silenzio che nemmeno il canto dolce dei pipistrelli riusciva ad alleviare. Il cielo fosco non concedeva neppure la grazia di un po’ di stelle. Stavo lì ad ascoltare la pioggia che batteva i denti contro la lamiera del tetto. Riguardavo i miei appunti senza vederli. Leggevo e rileggevo la stessa pagina, ma la mente scivolava di lato fino a toccare la terra…Cosa cercavo? Cosa avevo trovato?

Cosa fai qui?

Era la domanda che mi aveva fatto un omone nel motel di Djougou, dove ogni tanto andavo per ritrovare gli amici: Saidou, che faceva un salto appena aveva la serata libera, Sani, il maestro elementare, Georges l’infermiere, Michel l’insegnante. “Cosa fai qui? E “Cosa hai trovato”? Domande che mi bruciavano dentro.
E’ sempre stato difficile spiegare cosa stavo facendo. Forse quelli che capivano meglio erano ancora i Tanga. Quella domanda era come un dito, grosso e ruvido, in una piaga già aperta. Già, cosa cercavo tra quelle capanne vuote come gusci di conchiglia, tra quella gente che mi guardava con curiosità, ridendo ad ogni mio tentativo di ripetere una parola nella loro lingua? Cosa mi aveva spinto ad infilarmi in quella solitudine, in quella noia fatta di giorni in cui non succede nulla?

E se non accade nulla?

L’antropologo si aspetta sempre che accada qualcosa. A volte osserva la realtà che lo circonda come se fosse a uno spettacolo. Forse lo è, come lo è la vita di tutti noi, anche qui nelle nostre città, ma si tratta di uno spettacolo a volte noioso, povero di colpi di scena. “Uno straniero può guardare mille cose, ma vedrà solamente ciò che già conosce”, dice un proverbio africano. Chi ha detto queste parole non avrà letto molti libri di antropologia, ma sicuramente ne ha intuito il senso. La tradizione africana sembra voler scoraggiare chi vuole capire, addentrarsi e viaggiare tra i palmizi delle culture altrui. L’antropologo è forse un po’ malato di esotismo, e vuole viaggiare. Viaggiare, nello spazio, nel tempo, e soprattutto nella nostra mente, questa è l’antropologia, la ricerca.

Ritrovare se stesso

Ma un viaggio che ha sempre un ritorno. Ecco allora cosa ho trovato. Tra quei contadini tangba, nel loro modo di vivere, in quei villaggi semideserti nascosti tra le rocce, ritrovavo me stesso, sentivo qualcosa che mi faceva tornare indietro nel mio passato…sentivo le mie radici. Radici in parte presunte; sono nato in città, ma di stirpe montanara e contadina. Per tutta la vita ho corso alla ricerca di quelle radici nascoste dall’asfalto, per il gusto di sentire la terra sotto le scarpe.

Una fuga

Una fuga dalla città, dai condizionamenti quotidiani e anche dall’ovvio e dallo scontato. Stare al villaggio, come stare in montagna, mi faceva sentire precario, privo di certezze e di eventi prevedibili e pertanto ricco di possibilità. E allora cosa cercavo in quelle serate gonfie di angoscia, quando solo la paura delle buche della strada e la mancanza (per colpa mia) del faro anteriore della moto mi impedivano di fuggire a Djougou? Un racconto cercavo, solo questo. Una storia in più da aggiungere all’album della vita, della mia vita.

Marco Aime