| LA RICCHEZZA DI UN POPOLO
Le tradizioni orali
Sono arrivato in Costa d'Avorio nel gennaio
del 1972 e vi sono rimasto fino al maggio del 1977. Dopo uno stacco di tre anni,
vi sono ritornato di nuovo nel settembre del 1980. Sempre ospite dello stesso popolo, gli
Anyi-Bona, un gruppo forestale di circa 40 mila persone situato
nella sottoprefettura di Koun Fao, nella zona centro orientale
del paese.
Lo studio della lingua
Subito, al mio arrivo, mi sono messo allo studio della lingua.
Non c'erano documenti scritti all'infuori di una specie di Assimil
francese-agni, col quale mi sono iniziato. Ho chiesto ad un giovane
del mio villaggio di rileggermi tutto il testo nel magnetofono
con le varianti locali.
Dopo questo primo rodaggio ho cambiato metodo. Mi sono dato
alla raccolta dei testi di letteratura orale: proverbi, fiabe,
storie, favole, miti, leggende. Questo tipo di approccio l'ho
utilizzato sia per approfondire lo studio della lingua, sia per
l'interesse che porto a questo materiale orale il cui valore oltrepassa
largamente i confini dei villaggi che mi hanno ospitato.
Le sedute narrative
La sera andavo nell'abitazione di qualche anziano dove la
gente si riuniva per delle veglie narrative. Registravo alcune
ore di testi, poi con l'aiuto di un giovane, li trascrivevo in
caratteri fonetici internazionali, infine li traducevo.
La maggior parte di queste narrazioni
spiegano l'origine di istituzioni sociali, norme tradizionali,
riti ancestrali, usanze correnti. Partono dal vissuto quotidiano
per risalire al tempo mitico delle origini quando per la prima
volta è apparsa quella norma, o si è verificato
quel fenomeno.
Quasi tutti questi testi hanno un epilogo comune: ecco la ragione
per cui... il demonio, la morte, la potenza del male, le streghe,
il re, la regina... ecc, sono arrivati nel mondo. Oppure: ecco
la ragione per cui la pecora vive al villaggio e la pantera in
foresta, o perché Ragno tesse la sua tela sui muri, perché
l'aquila ha il becco ricurvo, ecc, ecc ....
Il finale del racconto ha sempre due funzioni: quella
ovvia di concludere la narrazione, e un altra eziologica, cioè
di indicare l'origine di un fatto sociale, di un fenomeno naturale,
legittimandone la presenza nella società.
La cultura tradizionale
Oltre alla conoscenza della lingua ci sono altre ragioni che
mi hanno spinto alla colletta di questi testi.
Ho cercato, dall'inizio del mio soggiorno, di interessarmi
ai vari aspetti della cultura tradizionale del popolo che mi ospitava:
ciclo della vita umana (nascita, iniziazione, matrimonio, morte),
feste tradizionali, riti ancestrali, tradizioni storiche, farmacopea,
ecc...). In questo lavoro di ricerca le difficoltà sono
molte. Un esempio.
Una sera, magnetofono alla mano, vado da Louis Kwame, un anziano,
un nanà di
Koun Abronso che possiede come pochi tutti gli elementi della
cultura del popolo. Volevo alcune informazioni sul sapere tradizionale,
sul come i vecchi trasmettevano le loro conoscenze ai giovani,
e su certi fatti storici circa l'esodo del gruppo.
Cominciamo a parlare del più e del meno. Avevo l'impressione
che non voleva parlare e che mi stava prendendo in giro. Dopo
un'oretta mi dice: "Vedi, sei appena arrivato (ero lì
da due anni) e vuoi sapere tutto, poni domande su tutto. Se vuoi
conoscere bene qualcosa devi stare qui molto a lungo, a lungo,
devi diventare uno dei nostri". E per illustrarmi quanto
stava dicendo, tira fuori un proverbio: quando il pollo va a razzolare
lungamente sul mucchio delle immondizie che si trova all'entrata
del villaggio, trova le ossa di sua madre. Voleva dire: se chiedi,
chiedi, a proposito e a sproposito, rischi di romperti il naso,
di fare delle scoperte sgradevoli.
Le difficoltà
della ricerca
Anche con la più grande buona volontà e delicatezza
possibili, le difficoltà che si incontrano in un lavoro
di ricerca, sono innumerevoli. Ma le difficoltà maggiori
non sono di questo tipo.
La prima impressione che il nuovo arrivato ha, mentre cerca
di capire qualche cosa del nuovo mondo di cui è ospite,
è la reticenza della gente alle sue domande. Il rifiuto
non è quasi mai diretto. I mezzi per eludere alle domande
sono diversi. Il più usato e il più semplice è
questo "Non so". E tu ti arrabbi perché sai che
non è vero. Oppure "Io non posso parlare senza la
presenza del capo del villaggio", "Quello che mi domandi
devi andare a chiederlo a quella tale persona e non a me",
"Io non posso parlare di fatti che non mi riguardano, anche
se li conosco".
O ancora. Prendi un appunto con una persona. Arrivi. Lui è
partito in un villaggio vicino. Tu hai fatto 25 km per andare
a trovarlo e lui non c'è, è partito altrove pur
sapendo che dovevi arrivare.
Un'altra volta era presente, ma mi ha detto: "Ritorna
in un altro momento, perché oggi sono troppo caldo. Lascia
che il mio cuore cada un po' nell'acqua e si raffreddi un poco".
Aveva avuto alcune contrarietà, doveva ritrovare la calma
e la serenità prima di poter parlare.
Eravamo a Koun Banua, dal capo cantone assuadiè, Kwadio
Nguettia.
Avevo preso un appuntamento con lui e i suoi notabili. Eravamo
appena arrivati, stavamo bevendo la linfa di palma offerta. Improvvisamente
arriva un messaggero e annuncia: "Si è persa una persona
in foresta. Da tre giorni non si hanno più notizie".
E' stato finito. Il capo non poteva più parlare. E non
ha più parlato.
Avevo chiesto ad un sacerdote-guaritore-indovino il nome del
condottiero che guidava i Bona durante il loro esodo dal Ghana.
Mi dice: "Aspetta che vado a consultare un'altra persona".
E' partito e non l'ho più visto.
Sono alcuni esempi di risposte che ho avuto io stesso durante
le mie richieste. Notavo che le reticenze più risolute
le trovavo quando ponevo questioni di ordine storico o politico:
luogo di provenienza degli antenati, struttura del potere, origine
delle istituzioni, ecc.. Per me era difficile comprendere questo
atteggiamento. Da un lato c'era la mia impazienza di sapere, dall'altra
un incomprensibile rifiuto di dare. Ma anche davanti a queste
difficoltà ho sempre cercato di avere atteggiamenti corretti,
rispettosi, e di simpatia verso tutti. E loro se ne accorgevano.
Poco alla volta si
capisce
Dopo diversi anni di presenza, poco alla volta ho cominciato
a capire. E' proprio il continuo contatto con la gente, il vivere
con loro, al loro ritmo, il laborioso studio della lingua, che
lentamente ti aiutano a cambiare mentalità, ad assumere
atteggiamenti nuovi, a "convertirti".
Allora al primitivo atteggiamento di stizza, subentra un atteggiamento
di comunione con tutti i valori che scopri e che ti fanno scoprire.
E ti accorgi che anche la diffidenza e la reticenza viste sopra,
sono motivate, hanno una loro ragione d'essere, anche se ti infastidiscono.
Ma tu non puoi comprendere tutto questo all'inizio. Tu arrivi
con schemi ben precisi in testa, magari collaudati da etnologi
di grido, e aggredisci la gente con domande precise piene di perché
e di come. E allora ti senti le risposte di cui sopra. Perché?
Fondamentalmente la risposta è una sola: perché
il loro ritmo di vita è diverso dal nostro, come è
diverso il loro modo di agire, di pensare, di essere. Infatti
l'agire diverso non è che la conseguenza di un essere diverso
che si può riassumere con una parola e una equazione. La
parola: interdipendenza. L'equazione: unione=vita, isolamento=morte.
Armonia e comunione
Il Bona vive costantemente in unione con tutti e col tutto.
Questi legami di comunione non si limitano soltanto, al piano
socio-economico, ma si estendono anche al piano culturale, religioso.
La vita è possibile solo se si è inseriti in questa
interdipendenza che unisce l'individuo ai membri del gruppo, viventi
e defunti, alla Madre Terra, agli Spiriti tutelari, all'Essere
Supremo.
Isolarsi equivale sottrarsi a questa vita che circola all'interno
del gruppo. Sovente l'isolamento volontario e immotivato è
sinonimo di morte.
Tenendo presente questa tela di fondo è possibile comprendere
tanti atteggiamenti a prima vista immotivati, e alcune risposte
avute.
Poiché l'individuo vive in unione col gruppo, non potrà
rivelare fatti che non gli appartengono in proprio. Non tutti
possono parlare di tutto, anche se lo sanno. E' questa spesso
la ragione delle risposte evasive o negative.
Per esempio le questioni storiche. La storia non appartiene
al mondo dei viventi, a agli antenati che l'hanno vissuta. Dunque
prima di parlare di loro bisogna propiziarseli, in un certo qual
modo chiedere loro il permesso di entrare nel loro mondo, chiedere
loro scusa. Evocare il nome di un antenato significa renderlo
presente, riattualizzare tutto ciò che ha fatto nella sua
vita.
Non ti appropriare
quello che non è tuo
Si comprende allora come non tutti siano atti e autorizzati
a divulgare il sapere storico . Un anziano non parlerà mai
se il suo capo non lo autorizza. Il più sovente parlerà
vicino a lui, lui presente, assieme ai suoi notabili. Anche un
capo non parlerà mai da solo, ma sempre con i suoi notabili,
o almeno con alcuni di loro.
Il capo e i notabili parleranno solo con te, mai davanti ad
un pubblico, specialmente giovane. Le cose sacre, e la storia
ne è una, devono essere circondate di rispetto, precauzione,
riguardo.
Ecco perché quella persona alla quale avevo posto la
domanda sul condottiero bona non mi ha risposto. Avevo chiesto
qualcosa che riguardava un altro gruppo, e per di più era
solo. Due ragioni per cui non poteva rispondere. Con una scusa
è scappato. E' stato meglio così, altrimenti, se
io avessi insistito, mi avrebbe raccontato delle storie.
Al ritmo della vita
Così il fattore tempo è un elemento di cui noi
siamo schiavi. Siamo dominati e schiacciati dai nostri programmi,
dai nostri orari. Per noi tutto è previsto, programmato,
calcolato. I Bona hanno una percezione del tempo diversa dalla
nostra. Essi sono inseriti in un tipo di società agricola,
completamente diversa dalle nostre società industrializzate.
Quasi tutti i bona dei nostri villaggi sono agricoltori a
sedi fisse. Hanno due tipi di colture: industriali e di sussistenza.
Fra le prime: caffè e cacao. Le seconde: igname, taro,
banana, manioca. Ai campi si va tutti i giorni. Si parte al mattino
presto e si rimane fino al calar del sole, mangiando solo qualche
tubero abbrustolito. Il pasto vero è alla sera, al ritorno
dai campi.
Ma se c'è un funerale al villaggio, o nei villaggi
vicini, più nessuno va al lavoro. Ci si ferma, si partecipa
al lutto, si celebra la morte. E i funerali durano diversi giorni:
danze funebri, colletta, cerimonie varie, discussioni.
Nella settimana ci sono poi alcuni giorni di riposo. La domenica
di introduzione cristiana, il venerdì giorno di riposo
tradizionale. A Koun Abronso, villaggio dove risedevo, c'è
anche il lunedì, consacrato alla collina sacra brandre.
Il Bona non ha mai fretta, sa prendere la vita con filosofia.
Il suo motto è o te
ma te, non c'è niente di grave, pazienza. Questo
motto lo dice anche nelle situazioni più gravi, più
tristi, più tragiche.
"Il padre ha sempre fretta", si sente dire spesso.
Fretta e impazienza che incidono negativamente nei rapporti con
la gente. Nel non saper ricevere bene, nel non trovare il tempo
per essere a loro disposizione, nel correre da un villaggio all'altro
nella convinzione di fare il proprio dovere.
Bisogna sapere perdere tempo, perderlo dal nostro punto di
vista, per restare con la gente. Durante una danza, vicino ad
un ammalato, con una persona seduto nel suo cortile a rosicchiare
un pezzo di akpesi
(igname bollito), sotto uno dei grandi alberi del villaggio dove
si cerca di regolare una questione, o ancora a casa tua, con una
persona che viene a trovarti.
Assumere il ritmo della
gente
Non devi pretendere che la gente di cui sei ospite assuma
il tuo ritmo. Sei tu che devi assumere il loro se vuoi capire
qualcosa, anche se ti è difficile. Per esempio stai lavorando
col tuo interprete. Una persona viene a trovarti. La fai sedere,
le offri da bere, le chiedi la ragione delle visita. Ti dirà
invariabilmente: "Vengo per salutarti". Se poi capisce
che non la scacci, se vede che sei disposto ad accoglierla, a
parlare con lei, a "perdere tempo", ebbene alla fine,
dopo un po' o parecchio tempo, ti dirà la vera ragione
della visita. Ma intanto tu "hai peso un'ora o due".
Ogni volta che qualcuno verrà a trovarti ti dirà
sempre che viene per salutarti, qualunque sia la vera ragione
della visita. Tu scioccamente all'inizio dici: "ma guarda
come sono falsi, vengono per domandare una medicina e dicono che
è per salutarmi". Poi, poco alla volta, capisci che
tu sei più importante della medicina. Soltanto dopo aver
avuto il tempo di posare un po, di aver scambiato qualche frase,
di essere cioè entrati in rapporto con te persona, solo
dopo ti diranno le cose. Ma tu subito non capisci e dici che sono
falsi. Quando comprendi dici loro grazie, perché ti aiutano
a non dimenticare che le persone sono più importanti delle
cose.
E anche tu devi sapere trovare il tempo per restare con loro.
Sopratutto per andare a trovarli gratuitamente, passando di cortile
in cortile, unicamente per salutarli. Senza fretta e senza dimenticare
nessuno. Così, per dire che si vive insieme, che si fa
parte della stessa famiglia, per portare tue notizie e prendere
le loro. Vivendo così al loro fianco ti accorgi che anche
il tuo modo di porre domande è loro estraneo, e sovente
incomprensibile, irrispettoso, urtante. E' sovente inutile il
chiedere perché di una tale usanza. L'hanno ricevuta così
dagli antenati e basta. Perché quando il re muore bisogna
uccidere una o più persone sulla sua tomba? Nessuno te
lo saprà, vorrà o potrà spiegare. Ma se tu
interroghi la letteratura orale, allora troverai la risposta.
La raccolta dei testi
orali
La raccolta della letteratura orale presenta dunque parecchi
vantaggi:
* non indispone nessuno. Anzi di solito i racconti li narrano
volentieri. Sono fieri di poterlo fare davanti ad un pubblico
di adulti e bambini;
* hai del materiale di prima mano, non manipolato, su cui
puoi lavorare sicuro.
* è un mezzo efficacissimo e nello stesso tempo piacevole
per approfondire lo studio della lingua;
* è infine uno dei mezzi più importanti per
entrare nella cultura di un dato popolo.
Tuttavia non si deve dimenticare che noi resteremo sempre
degli stranieri, anche con tutti i nostri migliori sforzi di adattamento
e di inculturazione. Un proverbio bona ce lo ricorda con molto
umorismo: bakaa to nzue nu
a/o ngachi elenghe: il bastone che cade nell'acqua
non si trasforma in coccodrillo. Non è questa l'incarnazione?
Diventare come l'altro, pur rimanendo se stessi. Cioè essere
immersi totalmente nell'acqua, ma rimanendo bastone.
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