Gli ANYI-BONA sono uno dei sottogruppi ANYI che popolano il centro-est
meridionale della Costa d’Avorio.
Essi fanno parte del grande gruppo Akan che si estende dal nord del Togo
alla Costa d’Avorio seguendo un asse NE-SO.
Bona, all’interno di un vasto flusso migratorio, si sarebbero installati
nel territorio che occupano attualmente verso gli anni 1700-1750.
La tribù Bona è suddivisa in quattro clan. Ognuno di essi
si riconosce in uno stesso antenato fondatore ed è depositario di tre poteri,
rappresentati da tre oggetti:
* il seggio ancestrale, simbolo del potere politico;
* la spada che visibilizza il potere di amministrare la giustizia;
* il tesoro regale che evidenzia la potenza economica e la continuità familiare.
Il posto più importante, all’interno di questa struttura etnica, è
occupato dal Re, il Famian.
Dal punto di vista sociologico siamo in presenza di una società matrilineare
e questo testimonia nuovamente dell’appartenenza dei Bona al gruppo Akan.
Se, da una parte, c’è virilocalità per la moglie e patrilocalità
per i figli, è comunque chiaro che questi appartengono alla famiglia della moglie.
La vera parentela, infatti, è legata al ventre della madre. E’ per questo che un
bambino nato da un padre Re, ma da madre schiava sarà considerato ‘schiavo’.
Un figlio di padre schiavo, ma di madre nobile sarà, invece, trattato come
un nobile.
L’enigmaticità di questo titolo vuol solo enucleare
quella che è l’ipotesi di partenza: chi può parlare è al
potere, chi ha il potere può parlare.
Siamo in presenza di società a tradizione orale;
tutto è, quindi, basato sulla Parola: è attraverso il detto e il
non detto che si può venire a contatto con questa cultura.
Non basta, quindi, raccogliere parole. Bisogna sapere quale
valenza e pregnanza hanno e, in fin dei conti, qual è lo statuto della Parola.
Noi, in Occidente, ci siamo abituati a una parola asettica,
sterilizzata, utilizzabile in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, con qualsiasi e
da qualsiasi persona.
L’Africa ha raccolto o condivide con il mondo biblico una stessa
concezione "logica": la parola non è neutra; essa provoca ciò
che evoca.
Bisognerà, dunque, ben guardarsi dal parlare di morte e dal
cantare lamentazioni funebri in tempo normale. Sarebbe un invitare la morte a far
la sua comparsa sulla scena del villaggio.
Evocare la possibilità di un incidente è come fornire
gli addentellati perché esso si verifichi.
Disturbare inutilmente i defunti equivale a provocarli e ciò
è malsano.
La parola, dunque, mette in moto gli esseri e le forze dell’universo
intero.
Da quanto detto sopra è chiaro quanto sia potente
la parola.
Una persona più potente di me ha una parola più potente
della mia; ha quindi la possibilità di confondere le mie idee e di ingarbugliare
le mie parole, impedendomi di dire quello che voglio dire.
La parola più potente è quella del più potente,
il Famian (Re). Essa può rendere folli: "uccide" - dicono gli informatori.
E continuano: "Nei tempi antichi, il Famian parlava per condannare. Quando chiamava
qualcuno, la famiglia di costui si metteva in lutto, e l’interessato se la faceva addosso
sentendo il Famian gridare".
Ecco perché la tradizione, mi sembra, ha escogitato due maniere
per proteggersi dalla potenza della parola regale.
Prima di tutto, la società tradizionale considera il Famian quasi
come un tribunale di ultima istanza, una corte d’appello, a cui si ricorre dopo aver
esaurito tutte le altre istanze di confronto e di giudizio. In tal modo si limita e si
circoscrive il parlare del Famian a determinati casi.
In secondo luogo, la società ha istituito la funzione del
porta-parola, il Kiame, la persona che parla a nome del Famian e a cui ci si rivolge
per parlare al Famian.
Da notare che questa "triangolazione logica" così
cara all’Africa, avviene anche ai livelli più bassi della società.
Da ultimo vorrei dire qualcosa che è già
emerso prima.
La parola che è potente e non neutra opera in colui
che la riceve o effetti positivi o effetti negativi. Essa può distruggere
o costruire, guarire o rendere malati, benedire o maledire.
E’ in ragione di questa ambivalenza che la società
sorveglia accuratamente l’emissione e la gestione verbali, di modo che la parola
sia benefica per la società da cui esce e soprattutto nei confronti di chi
occupa posti-chiave all’interno di questa società.
Vogliamo ora dire qualcosa sulla maniera di proferire la parola e sugli ambiti che essa raggiunge e coinvolge.
Perché la parola sia benefica e non sobilli o devasti l’ideologia sociale ci sono alcune norme che vanno rispettate sempre e da tutti.
C’è un tempo per ogni cosa, ma soprattutto ogni cosa ha il suo tempo. E qui bisogna fare una duplice distinzione.
Se un proverbio può essere detto in qualsiasi momento
perché suo fine è illuminare e chiarire una situazione presente con
un briciolo di saggezza ancestrale, non è la stessa cosa per i racconti che
sono, in misura maggiore, momenti di formazione storica, geografica, etica, comportamentale,
religiosa, ecc.
Essi vanno "parlati di notte" e non quando "la terra
è bianca". La notte, infatti, è il momento pubblico per eccellenza.
Tutti sono presenti e possono quindi esercitare un controllo sui valori umani e sociali
trasmessi.
Siamo qui in presenza di una trasmissione controllata della saggezza
che impedisce la deformazione della parola.
Alla stessa stregua va visto l’annuncio, per esempio, della morte di
personaggi regali: va fatto di notte.
Ci sono dei "momenti favorevoli" all’interno dei quali, e solo allora, certe cose si possono fare, come l’insegnamento dell’arte delle lamentazioni funebri che le donne anziane impartiscono alle ragazze durante i funerali regali.
Anche il luogo è importante per una retta e benefica
emissione della parola:
. certi racconti storici non possono essere fatti che sui luoghi che li
hanno visti svolgersi
. l’annuncio della morte del Famian o della Himian (regina-madre)
vanno fatti in determinati punti del villaggio
. la trasmissione di determinati segreti avviene attorno al fuoco
o nel segreto di una camera
Quando la parola è proferita pubblicamente di
fronte al Famian o ai suoi notabili, certi segni di rispetto debbono accompagnarla:
. scalzarsi
. far scendere e arrotolare intorno alla cintola il manto
. chiedere il permesso di parlare
. domandare scusa anticipatamente di quanto sarà mal detto
. triangolizzare il circuito logico
. tener le mani conserte
. evitare di battersi il petto (segno di autoglorificazione)
. non indicare mai nessuno con la mano sinistra
. non interrompere mai un anziano, ma permettere il contrario
La società tradizionale, sorvegliando rigorosamente l’emissione e
la circolazione della parola intende da una parte evitare di rimettere in causa l’ideologia e
i suoi principali rappresentanti, gli anziani, e dall’altra impedire che questi ultimi siano
oggetto di aggressioni verbali.
Da notare, infine, che anche il Famian quando vuol parlare con gli antenati,
deve sottomettersi agli stessi segni di rispetto.
Accenno solamente ad alcuni ambiti:
- psicologico: la parola è forza. Occorre proferirla
senza errori. In caso contrario viene a prodursi uno squilibrio interno tra significante
e significato.
- etico: chi "parla" proverbi, racconti, ecc. in
pubblico, soprattutto i capi, sanno che la società legge in queste parole le norme
di comportamento.
- sociologico: chi proferisce una parola importante impegna
la tradizione ed il gruppo che accoglie questa tradizione. Dicendola ridà vita
alla prima, provoca coesione nella seconda e aumenta l’integrazione di chi parla.
In fin dei conti è solo rispettando la deontologia che si
salvaguarda l’eugenia della parola: la parola nasce bene quando tutte le condizioni
richieste per il suo proferimento sono rispettate.
E’ utile non confondere coloro che parlano, coloro che possono parlare con coloro che sono, in ultima analisi, i proprietari della parola.
E’ attraverso i piccoli e grandi gesti della vita che si può giungere a conoscerli con certezza.
- gli antenati
Il Famian prima di iniziare un processo si presenta ai suoi predecessori per chiedere il permesso e avere
il potere di pronunciare una parola potente.
L’anziano, prima di parlare di storia, chiede permesso a coloro
che hanno fatto la storia e a questo effetto offre libagioni agli antenati.
- le potenze soprannaturali
Il ‘ministro’ della religione tradizionale
(sacerdote, indovino e guaritore allo stesso tempo) si comporta allo stesso modo
nei confronti degli esseri a cui rende culto: offre loro libagioni per chiedere una
visione chiara, una diagnosi certa, una parola efficace.
Se questi due personaggi che rappresentano e incarnano, per dirla in
modo approssimativo, l’uno il potere politico e l’altro quello religioso, hanno bisogno di
attingere altrove la parola, il rimanente degli umani non ha altre strade da percorrere
se vuole rimanere nel circuito tradizionale.
Questa parola quando viene affidata a degli uomini diventa
tra le loro mani un potere di cui essi si servono per governare la società e
nello stesso tempo per difendere i loro interessi.
Chi può parlare, in effetti, è chi comanda. La gestione
logica non è, quindi, disgiunta dalla gestione politica.
Chi può parlare, allora? Chi può dire parole pesanti?
Il possesso del trono ancestrale, il "seggio nero",
conferisce al Famian la supremazia della parola.
Egli parla una volta sola e quando lo fa tronca la discussione.
Nessuno parla dopo di lui.
Il Famian fa bere a questo suo notabile un intruglio preparato
dopo aver raschiato il di sopra del "seggio nero", affinché
acquisisca parole degne degli antenati.
Poi l’interessato deve giurare obbedienza e sottomissione agli antenati
regali e al Famian in carica.
Lui stesso, poi, avrà cura di aumentare questo suo potere tramite
medicine tradizionali o riti più o meno magici.
Essendo il seggio la materializzazione della presenza degli
antenati, il suo custode è colui che conosce la storia meglio di chiunque altro.
A questo punto bisogna aprire una parentesi su coloro che non possono
parlare pubblicamente. Meriterebbe un discorso a parte, ma ci limitiamo solo ad alcuni
accenni.
Coloro che non possono parlare in pubblico appartengono a tre categorie:
- le donne, che intervengono pubblicamente solo se invitate o se una
cerimonia esige il loro concorso
- i giovani, che devono stare attenti a parlare davanti agli anziani
che possono metterli a tacere quando vogliono
- gli schiavi e i loro discendenti, che non possono permettersi di parlare pubblicamente
Da quanto detto fin qui risulta chiaro, mi sembra, che la
parola è un potere che la società custodisce gelosamente e di cui si serve
per far sì che l’ideologia tradizionale non venga intaccata da elementi corrosivi.
E’ evidente, allora, la difficoltà a cui va incontro il
ricercatore.
Conoscendo lo statuto della parola sa che quelle che potrà
raccogliere sono solo quelle autorizzate dal potere. Si troverà, dunque, davanti
ad una versione ufficiale della storia, dei riti, delle credenze.
C’è, infatti, una storia per tutti, ed è quella gloriosa,
e ce n’è un’altra per pochi ed è quella vera.
Il sapere profondo, in effetti, è come il tesoro regale:
esiste una parte visibile che al limite è alienabile, ma ve n’è un’altra
non-visibile che è inalienabile. La prima si lascia facilmente modificare dalla
modernità, la seconda deve essere protetta a qualunque costo per non perdere
l’identità di gruppo.
C’è però una serie di parole che chiamo alternative
che ci aiutano o a vedere più chiaro o a farci capire dove sta la verità
o almeno ad indicarci che essa si trova al di là.
Ci sono prima di tutto degli elementi che ci offrono dei riscontri concreti nel patrimonio culturale.
Dapprima ci sono i proverbi, i racconti, le nenie, etc. che, attraverso l’immutabilità o la mutabilità controllata dei contenuti ci aiutano a risalire all’ideologia sociale.
Anche i riti, nel ripresentare, con regolarità e precisione, gli stessi gesti e le stesse parole, possono offrirci un altro tassello per una più reale comprensione.
Gli scettri che sulla sommità portano scolpite
delle statuine enuncianti, plasticamente, le caratteristiche del potere.
Poi, i monumenti funerari, parole pietrificate o pietre parlanti; con
le loro statue ed i loro accostamenti ci permettono di intravedere la concezione della vita,
dell’al di qua e dell’aldilà.
In tutto questo, però, bisogna sempre ricordare che c’è
una "verità per tutti" e una "verità per pochi"
che è la vera.
Ci sono, infine, degli elementi che, pur non aumentando il nostro patrimonio di conoscenze ci fanno capire che siamo o no sulla strada giusta.
Il fatto che tutti offrano la stessa versione di un avvenimento, di un rito o altro non è di per sé probante. O si tratta di qualcosa di infantile per cui non vale la pena di indagare o ci si potrebbe trovare in faccia di una verità volgarizzata e dunque gloriosa, festiva.
Sono essi molto indicativi. Tra il detto e il non-detto si snoda tutta una gamma di sfumature in cui trovano posto l’evocato, il suggerito, il sussurrato, il sottinteso, l’eufemismo, ecc. I silenzi di una persona possono avere tre ragioni principali:
Certe cose le sanno solo determinate persone ed è a loro che occorre rivolgersi.
Pur sapendole, certe cose non vanno dette perché dire è svelarsi e svelarsi significa esporre l’ideologia sociale all’aggressione e quindi ad un possibile sovvertimento dei valori tradizionali
Si entra qui nell’area del mistero in cui non tutto si capisce e quindi non di tutto si può parlare: ne manca la capacità
Un altro metodo per rendersi conto dell’importanza di quanto si
vuol sapere e della fortuna di esser capitati sulla persona giusta consiste nel costatare
le scappatoie che utilizza la persona interessata: o non è il momento giusto o
non si è nel luogo più indicato o mancano le persone indispensabili
alla proferazione di una parola pesante!
Si potrebbe facilmente pensare che parlano tutti quelli che sanno, ma ciò non trova riscontro nella realtà.
Non tutti quelli che sanno, infatti, parlano perché
non tutti i sapienti hanno diritto alla parola.
Il sapere aumenta il potere di chi può parlare, ma rimane
circoscritto e soffocato in chi non può parlare.
Come per la parola anche per il sapere bisogna distinguere tra chi lo possiede in proprio e chi lo gestisce per benevola concessione altrui.
Due tipi di proprietari ci interessano in modo particolare:
- Dapprima i defunti, che siano antenati o no. Sono loro che sanno come si è
svolta la storia, quali sono i segreti della farmacopea tradizionale. Sono ancora loro
che possono svelare la vera natura di un individuo o insegnare un certo saper fare.
- Troviamo, in seguito, le potenze soprannaturali e più in particolare gli
spiriti della foresta.
Anch’essi, secondo i racconti e i miti, hanno insegnato agli umani ed in particolare
ai cacciatori, certi segreti necessari alla messa in atto di riti divinatori in grado di
conoscere e in certa misura, quindi, di dominare il futuro.
Se sono queste, soprattutto, le categorie che detengono
il sapere è evidente che sono sapienti coloro che sono più vicini ad esse.
Avremo, quindi, da una parte gli anziani che si situano alla cerniera
dell’al di qua e dell’aldilà; dall’altra troveremo le persone cotte o cavalcate,
persone cioè potenti o possedute da uno spirito della foresta o da un defunto.
Due osservazioni vengono a completare questa analisi. Nel comunicare
un sapere si fa sempre il nome di colui dal quale lo si è ricevuto. Questo non
solo per dare autorità al proprio dire, ma soprattutto per condividere con lui i
benefici di una comunicazione riuscita o per addossargli semplicemente la responsabilità
degli effetti negativi suscitati eventualmente da essa.
Non bisogna, poi, dimenticare che è tra i gerenti del sapere che
sono scelti i gerenti del potere sia politico che religioso.
Non si tratta evidentemente del saper fare che è
in massima parte accessibile a tutti.
Esso concerne, invece:
a) la farmacopea tradizionale: i suoi segreti sono conosciuti
dal sacerdote della religione tradizionale e dalle diverse sorte di guaritori
b) le liste genealogiche e la ricostruzione vera dei fatti
storici: solo i presunti eredi al trono e alle cariche importanti a livello di
lignaggio possono esserne al corrente
c) il culto e le cariche a servizio del regno hanno degli
specialisti a cui spettano certe conoscenze
d) certe tecniche agricole vitali: ne sono depositari alcuni
villaggi
Anche qui alcune osservazioni vengono a completare il quadro così
abbozzato:
- questo sapere che, ripetiamo, non è saper fare, è
finalizzato, da una parte, a stabilire e giustificare il potere di alcuni all’interno
della società e, dall’altra, ad assicurare il dominio su gli altri elementi del
potere: ricchezze, beni, eredità, ecc.
- Il sapere non è solo informativo, ma soprattutto operativo.
Chi possiede una determinata conoscenza deve utilizzarla perché, da una parte, gli
è stata data per il bene comune e, dall’altra, essendo stato affidata a lui solo,
solo lui può renderla operativa. Nessuno può farlo al suo posto.
L’accesso al sapere tradizionale non è democratizzato.
Non tutti quelli che ne hanno la pretesa, infatti, vi accedono. Tre sono i principali criteri
discriminatori.
a) il sesso: allo stesso modo che esiste una suddivisione
sessuata del lavoro, così avviene nel campo della conoscenza.
le donne
ad esse sono affidate tre grandi specie di conoscenze:
quanto concerne i riti terapeutici e di protezione. Diversi riti in cui
giocano una parte importante le danze sono gestiti dalle donne, in particolare in occasione
di un’epidemia (mgbara), del decesso di una donna incinta (mumué) o del persistere
della siccità. Gli uomini non possono parteciparvi, sotto pena di gravi disgrazie.
quanto riguarda i riti dei funerali e della vedovanza
quanto ha attinenza alle genealogie e, in ultima analisi, quindi, alla designazione al trono regale.
gli uomini:
essi conviene, invece, il sapere relativo:
. all’origine del gruppo sociale
. alla storia
. all’esercizio del potere
. alle relazioni tra villaggi
. alla distribuzione di terre
. allo sfruttamento delle risorse della terra (caccia, raccolta, coltivazioni,
ricerca dell’oro, ecc.)
La società tradizionale affida alle donne il sapere
attinente alla vita (la sua apparizione, la sua protezione e la sua sparizione),
mentre agli uomini chiede l’organizzazione socio-politica di questa vita.
All’interno degli appartenenti al sesso maschile, poi, più
sa chi più è vicino al potere. Coloro che sono piazzati meglio sono
evidentemente gli eredi di un potere o di una carica a servizio del potere.
Tra i tanti eredi accederà al sapere il migliore, colui
cioè che ha una condotta integra, chi è fattore di unità, chi
sa gestire i propri beni, chi ha buon senso.
La società, dunque, lavorando alla preservazione dello status
quo che ritiene essere il migliore, pone ai posti-chiave le persone migliori e ad esse
affida la ricchezza e l’ampiezza del suo sapere.
Occorre dapprima vedere i canali attraverso cui si ha adito a quelle conoscenze e poi in che modo vi si giunge.
Ricordando che la società Akan è a regime matrilineare,
due sono i vettori principali su cui si perviene alla conoscenza.
- vettore paterno: dal padre il figlio viene
a conoscere:
a) elementi relativi ai totem che proteggono e sviluppano il principio
vitale e il destino di una persona (kara)
b) i segreti relativi alla sua arte, al suo culto domestico
c) le sue conoscenze storiche e le tecniche artigianali che può avere
E’ la trasmissione ideale perché tra padre e figlio non esistono
sospetti di stregoneria.
- vettore avuncolare: dallo zio
materno il nipote uterino riceve conoscenze in ordine a:
a) quanto concerne il suo statuto sociale
b) la natura e l’importanza dell’eredità
c) il ruolo politico che avrà nel villaggio
Questa relazione è carica di ambiguità e di accuse di
stregoneria; lo zio pensa, infatti, che il nipote voglia farlo morire per poter ereditare
al più presto.
A causa di questa rivalità innata nel rapporto, il nipote saprà raramente tutto e ad ogni modo lo saprà tardi.
Prima di trasmettere il loro sapere lo zio e il papà
sottomettono il giovane ad un triplice esame.
Dapprima si farà attenzione al fatto che l’interessato
renda o meno i piccoli servizi quotidiani (portare la seggiola perché lo zio o il
padre possano sedersi, portare l’acqua agli stessi perché si lavino, ecc.), se
rispetta gli anziani.
Poi gli verrà chiesto di rendere un servizio gratuito e difficile
come, per esempio, portare un messaggio in piena notte in un altro villaggio, percorrendo
un sentiero pieno di insidie.
Se il test risulterà positivo, se la società si sentirà
rassicurata e si è assicurata che il giovane, visto il suo spirito di servizio,
la sua obbedienza e il suo coraggio, utilizzerà le sue conoscenze per il bene del
gruppo, allora l’anziano, una sera attorno al fuoco, comincerà a parlare e a
trasmettere conoscenze.
L’anziano frammischierà, nel suo dire, cose banali
e cose serie. Questo per osservare, da una parte, se il giovane è paziente nella
ricerca della verità e, dall’altra, per rendersi conto se è attento a
rilevare tra le tante cose sentite le poche importanti.
Nei giorni seguenti verificherà la sua capacità di
ritenere a memoria le cose.
La società e chi al suo interno la dirige, vogliono
essere sicuri che l’acquisizione di nuove conoscenze serva gli interessi del gruppo e non
sia utilizzata contro di esso.
Si accerteranno, quindi, se il giovane sa tacere nelle piccole cose
così da lasciar presumere di essere in grado di saperlo fare anche nelle grandi.
La trasmissione di sapere, infatti, è trasmissione di potere.
Bisogna che sappia, quindi, che c’è un sapere per bambini, in senso sociologico
s’intende, e un sapere per anziani.
L’ultima osservazione ci spinge a mettere in maggior rilievo
quella che è una delle preoccupazioni maggiori e costanti della società
tradizionale.
Essa mette in atto ogni risorsa affinché il sapere non giunga
alle orecchie di chi potrebbe utilizzarlo contro di essa.
Il sapere è un bene che il mondo invisibile e quello visibile hanno
in comune o meglio che il primo partecipa al secondo.
La sua gestione non deve andare, quindi, contro gli interessi di questi due
mondi. E’ un bene che deve rimanere al servizio del bene comune.
La società tradizionale persegue, dunque, attraverso un metodo
educativo suo proprio, un obiettivo di primaria importanza: far sì che il
sapere sia in buone mani e che quindi i sapienti siano saggi.
Presento ora due personaggi che rivestono
una particolare importanza all’interno della società e della cultura Agni-Bona,
in riferimento al soggetto fin qui trattato: il Famian e il sacerdote della religione
tradizionale.
Il posto più importante ed il ruolo più
influente nell’organizzazione socio-politica sono certamente ricoperti dal capo clanico,
il Famian.
Mi sembra quanto mai importante, metodologicamente, sapere
qual è il posto che l’ideologia gli attribuisce per poi capirne il potere.
Cerchiamo allora di vedere alcuni aspetti dello statuto che la cultura
ideale gli attribuisce.
Nei racconti il binomio Nyamian-Famian (Dio-Re) è sovente
presente e spesso i due termini sono intercambiabili.
Da una parte, il Famian sembra essere il corrispondente, l’equivalente
di Nyamian in terra. Se Nyamian è l’Essere Supremo in cielo, il Famian è
l’essere supremo sulla terra. Se Nyamian è sorgente e garante di vita per il macrocosmo,
il Famian svolge lo stesso compito nel microcosmo terra.
Dall’altra parte, il Famian appare invece come il delegato,
il rappresentante di Nyamian sulla terra.
Due osservazioni ci aiutano a fondare la precedente affermazione.
Durante la festa degli ignami il Famian viene portato sull’amaca e ad un certo punto
comincia a danzare. Dopo aver mostrato con la mano tutto quanto esiste sulla terra,
fa segno -portando la mano al petto- che tutto gli appartiene. Ma subito dopo alza
il dito verso il cielo quasi ad indicare che tutto quanto esiste e gli appartiene è
in ultima analisi di Nyamian.
Questa idea è ripresa e raffigurata in maniera plastica su un kpoma, uno scettro.
Sopra vi è scolpito un seggio degli antenati con una mano posata su di esso il cui
indice è rivolto al cielo. E’ in ricordo della festa degli ignami e ha lo steso
significato simbolico.
Il Famian è il successore attuale e la persona più vicina all’antenato
fondatore.
Il suo potere, conferitogli dal suo ruolo di guardiano e sacerdote dell’adja bia,
lo situa subito alla cerniera tra i vivi e i defunti. E’ su uno scalino più in
alto dei semplici mortali.
Giudice supremo, sacrificatore esemplare, si può dire che gli è
impossibile svolgere convenientemente tutti i suoi compiti presso i viventi sulla
terra se non assolve a tutti i suoi doveri nei confronti degli antenati.
Il Famian incarna nella sua persona tutto il suo popolo. Ciò che capita a
lui capita a tutto il popolo. A tal punto che alla festa degli ignami, la più
importante presso i Bona, la purificazione del Capo significa ed opera quella di tutti
i suoi sudditi, della stessa Terra e anche dell’intero cosmo.
Provoca nel popolo ciò che gli avvenimenti della sua vita evocano: se smette
di mangiare, la carestia sopraggiunge nel paese; se è catturato dal nemico, la
guerra è finita perché persa; la sua prigionia significa l’asservimento
di tutto il suo popolo.
Investito della suprema autorità tradizionale il
Famian ed anche la società hanno dei doveri da osservare per salvaguardare la sua
integrità fisica ed il suo prestigio morale.
E’ per questo che non gli si rivolge la parola direttamente, ma sempre
attraverso un intermediario.
Mangia da solo o con qualcuno della sua famiglia.
Non beve sulla piazza pubblica. Non frequenta le ragazze e non commette
adulterio.
E’ l’espressione dell’ordine e dei sani costumi che debbono esistere
all’interno della società da lui amministrata e occorre che ne dia lui stesso
l’esempio.
Non deve correre rischi per non farli correre al suo popolo. Non
stringe la mano a qualsiasi persona. Evita di girare da solo di notte. Non cammina
mai scalzo e non lavora ai campi per paura di ferirsi; il suo sangue, infatti, è
quello del popolo.
Garante della vita del suo popolo, non deve perderla lui stesso.
Non deve quindi venire a contatto con la morte né dare lui stesso la morte.
In ragione dello stesso principio, non hanno diritto al seggio
ancestrale né i circoncisi né i difformi perché fisicamente non
integri.
In certi posti, ogni sette anni, durante la festa degli ignami,
il Famian veniva esaminato accuratamente per assicurarsi della sua integrità fisica.
La monarchia non è mai stata, presso gli Agni,
né assoluta né ereditaria.
Questo lo si rileva da alcune costatazioni alla base delle quali sta
il principio maestro che il potere appartiene al gruppo che lo affida al sovrano che si
sceglie.
- Occorre subito dire che il Famian viene scelto in base ad un’analisi
genealogica molto accurata di cui le donne, la regina-madre in particolare, sono le
protagoniste principali.
- Il secondo criterio di scelta sta nel giudicare le qualità e
le capacità del candidato a governare, a proteggere e ad accrescere la vita del suo
popolo.
- In terzo luogo, l’insieme si premura di affiancare al Famian un gruppo
di notabili che fungono da consiglieri, di cui il più importante è il Kiame,
il suo porta-parola .
- Da ultimo, il principio generale che il potere appartiene al gruppo
è verificato dal fatto che nelle società akan il Famian può essere
detronizzato.
Ciò in base ai seguenti criteri:
a)se fa una guerra contro la volontà del popolo
b)se dilapida il dja, il tesoro regale
c)se i suoi atti rischiano di essere nocivi per i sudditi (in caso, per es., di follia
o di stregoneria)
d)se è incapace di governare
e)se non sa proteggere o difendere il suo popolo
f)se non ha beni o se non li fa vedere
Da tutto ciò appare chiaro che il gruppo affida al sovrano il
potere, ma glielo toglie quando il Famian si dimostra incapace di usarlo per il bene dei
suoi sudditi.
Da notare che giudicare un Capo di fronte ai suoi simili equivale a
detronizzarlo.
La sua morte è a immagine della sua vita: grandiosa e temibile.
I suoi funerali danno luogo a degli assembramenti imponenti e a delle feste collettive.
Il leader, il grande giudice e sacerdote, l’elemento di coesione e il garante dell’ordine
essendo morto, il disordine prevale momentaneamente nel villaggio fino al momento in cui non
è designato un nuovo Capo.
Questo disordine libera la violenza che il Famian riusciva a contenere con l’esercizio del
suo potere.
Si crea allora una situazione di "inversione sociale" (gli schiavi comandano
gli uomini liberi, gli uomini fanno i lavori delle donne, etc.) in cui la legge è
neutralizzata e la violenza, sotto molteplici forme, si installa nel villaggio.
Senza dubbio questa situazione, che è come una valvola di sicurezza per il villaggio,
ha anche per scopo di far desiderare il ritorno all’ordine e di mostrare, quindi, quanto
importante sia il ruolo del Famian.
La morte del Famian è così grave per la vita del villaggio che viene perfino
negata a livello verbale.
Per annunciarla, infatti, ci si serve di un giro metaforico. Si dice, per es., "il
Famian ha male ai denti", "il Famian si è rotto la gamba" o espressioni
equivalenti.
Quando gli altri capi giungono al villaggio del defunto, si mostrano arrabbiati contro
i residenti che sono stati incapaci di conservare l’integrità fisica del loro sovrano:
hanno permesso che la sua vita si rovinasse.
Per calmare la loro collera e ottenere il loro perdono, occorrerà fare dei sacrifici
per propiziarseli al loro arrivo al villaggio.
Nei tempi antichi, i funerali regali erano grandemente temuti perché "il Famian
non partiva mai da solo". Altri dovevano accompagnarlo per aiutarlo a compiere il
cammino che doveva percorrere per giungere alla dimora dei defunti.
Per concludere direi che la società tradizionale ed i racconti, espressione decantata
e cristallizzata della saggezza ancestrale, mostrano quanto grande ed importante sia il
potere del Famian, ma nello stesso tempo ricordano costantemente al potere politico la sua
fragilità, la sua vulnerabilità ed i suoi limiti.
Per essere solido gli occorre ricordare la sua dipendenza da Nyamian, dagli antenati,
dal gruppo stesso che gli affida il seggio solo in quanto detentore temporaneo del potere.
Il Komian è un personaggio particolarmente importante
e potente della e nella società tradizionale.
Purtroppo non è facile parlare di lui e presentarne un’analisi
dettagliata.
Questo per due ragioni strettamente collegate tra loro.
- La prima ragione è che il suo statuto e il suo ruolo sono da
sempre e per tutti avvolti nel mistero.
- Il secondo motivo consiste nel fatto che fin dall’inizio
dell’evangelizzazione questo personaggio è sempre stato considerato come il
nemico numero uno del cristianesimo e i suoi riti come un insieme di "diavolerie".
Era l’antagonista designato del missionario e la religione di cui era personaggio-chiave si
scontrava spesso e volentieri col cristianesimo.
Con questi presupposti era evidentemente difficile penetrare il mondo e
il mistero di questo personaggio. Detto questo, possiamo comunque metterne a fuoco alcuni
aspetti.
a) terminologia e ruolo
Il problema terminologico è assai complesso perché ci
si trova a dover rendere con dei termini della lingua italiana realtà
culturali che prettamente italiane non sono.
Il Komian è la persona che noi chiamiamo, in maniera
inesatta, "stregone".
Per evitare questa connotazione unicamente negativa e peggiorativa
e per rispettare maggiormente il suo ruolo dovremmo definire questo personaggio con i
termini veggente-sacerdote-guaritore. In effetti, in questa cultura, egli cumula diversi
incarichi.
- In ragione del suo commercio con le divinità tradizionali,
egli è colui che vede chiaro, colui che sa passare attraverso la corteccia del
visibile per penetrare nell’invisibile, nell’essenza delle cose. In filosofia si direbbe
passare dal fenomeno al noumeno. Gli è quindi possibile, da una parte,
"giudicare" il passato, spiegarlo, per sapere quali sono le persone o le forze
all’opera negli avvenimenti; dall’altra, prevedere il futuro, determinarne le grazie e le
disgrazie.
- E’, in seguito, sacerdote: offre sacrifici alle sue divinità,
ai suoi feticci, a quelli che gli procurano scienza e forza e alle divinità e agli
antenati del villaggio per chiedere protezione e vita.
- E’, infine, guaritore. Conoscendo la causa del male e delle malattie
è capace di preparare medicine preventive e curative. La sua conoscenza delle erbe
è, d’altronde, conosciuta e riconosciuta.
In fin dei conti, da quanto si può dedurre dalle descrizioni
fatte fin qui, questo personaggio mette le sue capacità al servizio della
società in quanto tale, lottando in particolare contro gli spiriti cattivi
e gli uomini che ne sono il ricettacolo, quelli che vengono chiamati "diavoli",
che "mangiano" lo spirito degli altri e che sono i veri responsabili delle
disgrazie e delle perturbazioni dell’ordine sociale.
E’ l’agente, dunque, della lotta collettiva contro il male, la
malattia, le disgrazie, la morte.
b) chi e come si diventa Komian
Possiamo ora soffermarci brevemente su chi e su come si diventa Komian.
- chi
Questo personaggio, modello di persona religiosa tradizionale,
può essere uomo o donna.
Certamente è maggiore il numero delle donne che in alcuni
luoghi hanno perfino dei noviziati.
Alcuni spiegano questo fatto dicendo che è più facile
per le donne entrare in trance.
- come
Per quanto riguarda il modo di diventare Komian, differenti sono
le modalità:
* si eredita il ruolo e i poteri all’interno di uno stesso clan
* si può diventarlo in seguito a "possessione" da parte
di un essere soprannaturale
* si può chiedere, di propria iniziativa, di essere iniziato a
questo ufficio da un altro Komian
* si può essere predestinati, dal fatto di una nascita fuori del
comune, a divenire Komian.
Ciò che è certo è, comunque, che questa funzione
necessita di una preparazione lunga e accurata e di doti molto sviluppate. Dice infatti un
proverbio Agni: "Quando non si è intelligenti non si diventa Komian".
c) confronti e rapporti tra Komian e Famian
I suoi ruoli sono certamente distinti, anzi c’è perfino incompatibilità tra i due stati. Un Komian non può diventare Famian e se per
caso quest’ultimo diventasse Komian gli sarebbe tolto immediatamente il seggio del potere.
Se un conflitto dovesse nascere tra i due, il Famian potrebbe
espellere dal villaggio il suo antagonista. Ma la gente pensa che, in ragione dei suoi
poteri occulti, non c’è interesse ad inimicarsi il Komian.
Come il Famian, anch’egli gode di molta stima e incute timore reverenziale.
Come lui ha degli interdetti da osservare, ma può infrangerne altri senza incorrere nei
biasimi e nelle pene comminati a qualsiasi mortale. Diversamente dal Famian, egli vive della
sua "arte".
La gente gli fa doni in natura o in liquido in occasione di danze, consulti
o guarigioni operate.
Gli vengono inoltre lasciate le carni dei sacrifici e gli alimenti portati
come offerta.
Essendo l’interprete del mondo invisibile presso il mondo visibile,
il Famian
e i notabili vanno a consultarlo in caso di guerra, di epidemie o di insediamento di un nuovo
villaggio o di celebrazione o meno di una festa.
Suo compito, infatti, è di tradurre e trasmettere alle
autorità
politiche le decisioni del mondo occulto per illuminarle e aiutarle nelle loro decisioni.
Se si volesse schematizzare, in maniera un po’ approssimativa, si
potrebbe dire che se il Famian rappresenta il potere politico, il Komian simbolizza
quello religioso.
I due personaggi incarnano le due facce del potere.
Ciò è talmente vero che ciascuno di questi due personaggi
celebra a modo suo la festa degli ignami, o lo stesso giorno oppure il Komian otto giorni
dopo il Famian.
Non bisogna poi dimenticare che spesso i due poteri sono frammischiati.
Per terminare potremmo dire che questi due personaggi, a cui la
società tradizionale attribuisce e riconosce un sapere e un potere fuori del
comune, trovano la loro realizzazione completa nel lavorare per il bene della
collettività, cercando cioè di purificare, difendere e fortificare la vita.
Conclusione
Alcune conclusioni, già emerse qua e là nel corso
della presentazione, si impongono.
Siamo in presenza di una società che vive in profonda simbiosi
e sintonia con il mondo che la circonda e con l’aldilà.
Con quest’ultimo, in particolare, intrattiene un rapporto privilegiato
perché la sussistenza dell’ordinamento sociale e della società in quanto tale
esigono la ripresentazione e la riattualizzazione del passato nel presente. Ciò che
gli antenati hanno fatto è modello e norma di quanto il Famian e coloro che gestiscono
il potere devono realizzare.
Le parole che contano, quelle che hanno il crisma dell’ancestralità,
dunque, provengono da chi gestisce il potere, a nome degli antenati, o è legato al
potere e sono comunque sempre al servizio del potere.
Educare alla parola è, quindi, nello stesso tempo, educare al
silenzio. Perché per la sopravvivenza della società e la sua coesione
armonica sono importanti sia la parola proferita che la parola trattenuta.
Come abbiamo potuto renderci conto, Parola e Sapere sono due poteri
di cui il secondo è più vasto, ma il primo è più importante.
Tutti quelli che possono parlare, infatti, sanno ma non tutti quelli che sanno possono
parlare.
Il vero potente è, dunque, secondo l’ideologia tradizionale,
colui che unifica nella sua persona questi due poteri.
Il Famian ed il Komian sono l’incarnazione esemplificatrice di questi
personaggi che la società ritiene e rende potenti.
Gli antenati e le potenze soprannaturali assicurano una copertura sacra
ai gerenti di questi poteri, scoraggiando con questo i movimenti centripeti o i disordini
eventuali che potrebbero crearsi all’interno.
Infine, è risultato abbastanza chiaro che chi ha un potere non
lo riceve (solo) per se stesso, ma perché il gruppo ne tragga beneficio.
La coesione, la difesa, il potenziamento della società tradizionale
e dell’ideologia che esprime e di cui essa è espressione sono, quindi, tra le sue
mani.
Renzo Mandirola
(Pubblicato in AFRICA, Rivista trimestrale di studi e documentazione
dell’Istituto Italo-Africano, Anno XLIX – N 2, Giugno 1994, 229-249)