Confidenze di un sovrano

Kwame Yebua, il capo villaggio, è in grande forma. Siamo una domenica pomeriggio a Koun Abronso, un villaggio della Sottoprefettura di Koun Fao, nella zona centro-orientale della Costa d'Avorio. Lo vedo arrivare con un ombrello. Non è che piova, no! E' per ripararsi dal sole.
Sono sotto, al piano terra, nello studio. Lo osservo da lontano. Cammina con calma,piano piano, si guarda attorno. Ha un incedere quasi maestoso. Guarda su verso la terrazza e vede tutto chiuso. Me wo ewa!, gli grido, sono qui. Sorride e si avvicina: ndja nu o, il saluto della sera. Eia, rispondo io. Chiudo lo studio. Lo accompagno sopra, sulla veranda, dove accolgo la gente.

La visita di un amico

Mentre saliamo le scale gli chiedo:
- Come si chiama l'ombrello in bona?.
Lo sapevo, era solo per dare un tono faceto alla conversazione.
Katauia, mi risponde, parasole.
- Ah, ma allora non serve per pararsi dalla pioggia, ma solo dal sole.
Sorride e aggiunge:
- E' così che si chiama in bona.
- Ma non c'è mica un altro nome, insisto io.
- Sì c'è, è akinewaa, ma è di origine ashanti.
Ci sediamo sulla veranda. Ricambio il suo saluto: nana aosi, wo won te kpa? Buona sera anche a te, vegliardo, come stai? (qui ci si dà tutti del tu). Nossua? E la notizia della sera?
- Ah, non c'è niente di grave, sai oggi è venerdì, non sono andato alla piantagione, e ho detto vado a trovare un po' il mio amico, e così sono venuto".
Siamo amici da tempo. Nel 77, quando sono rientrato in Italia per tre anni, mi ha regalato un suo anello d'oro, segno e simbolo dell'amicizia che ci legava. L'amicizia è sempre cresciuta. Non è cristiano, ma viene alla messa quasi tutte le domeniche. Viene spesso a trovarmi. Parliamo a lungo, a lungo.

La libazione agli antenati

Gli offro, come al solito, un bicchierino di Whisky. Lo accompagno anch'io. Lo prendiamo secco, fa meno male. Poi ci mettiamo a discutere. Mi spiace di non aver il magnetofono davanti a me, ma forse non sarebbe così eloquente, e certamente meno libero. Offre le ultime gocce in libagione alle colline sacre del villaggio: Brandre, Aketeghia, Konghia, Kanga boka; poi invoca la terra: nana asiè; poi i suoi predecessori: Kwadja, l'antenato fondatore, poi i più recenti: Kutu, Amata, Aforo.
Prende spunto dalla bevanda e mi chiede:
- Ti ricordi di Koabenan Taki?
- No, rispondo.
- Deve essere morto prima che tu arrivassi. Era un tipo allegro, gli piaceva molto scherzare, proprio come te. Sai come chiamava il banghi (linfa della palma)? moo gnifanan, il seno della mamma, cioè il latte materno, dato che è bianco come il latte. E ne beveva, ne beveva. Al mattino diceva di assomigliare a sua mamma, poi alla sera, dopo aver bevuto, diceva che assomigliava a suo papà, era proprio un burlone".

Le strutture sociali

- Koabenan Taki era un capo o uno o uno del popolo?
- No, non era un capo, era solo un notabile, un dihè, un libero. Lo sai che nella nostra società ci sono i dihè, i liberi, e gli aburua, i discendenti di quelli che una volta erano gli schiavi. Queste cose di solito non si dicono, ma tutti al villaggio sanno che sono i liberi e chi sono i discendenti degli schiavi. Per esempio quelli che fanno i sacrifici al seggio degli antenati durante la festa degli ignami sono sempre degli aburua.
Faccio deviare la conversazione.
- Un giorno, quando non ci sarai più, riceverai anche tu le offerte, i sacrifici, invocheranno il tuo nome, ti daranno da bere, da mangiare.
- E' vero. Per esempio la libagione che ho fatto poco fa invocando Aforo Kwaku, il mio predecessore, ebbene un giorno altri la faranno invocando il mio nome. A proposito sai come si seppellivano una volta i capi?

I funerali dei sovrani

Sono cose che so da tempo, ma rispondo di no, voglio sentire cosa mi racconta, dato che parla spontaneamente. D'altronde, secondo la prassi locale, quando qualche anziano ti chiede se sai questo o quello, devi sempre rispondere di no.
- Una volta quando i capi morivano, non li seppellivano mica subito. Per esempio, io se morivo, dicevano che avevo male ai denti. Mi mettevano in una stanzetta, a lungo, a lungo, diversi mesi, magari un anno. Dicevano che mi stavano curando. Poi, quando il mio corpo era diventato secco, mi deponevano in una pelle di bue, la cucivano ben bene, poi mi portavano a Gura, e mi seppellivano laggiù nel fiume.
- Perché si sotterravano i capi nel fiume?
- I capi erano sepolti coperti di oro: corone, catene, anelli, scettro, sacchetti di polvere di oro. Se non si seppellivano nel fiume c'era pericolo che andassero a rubare il loro oro. Si faceva deviare il fiume, si scavava in un lato la fossa, si deponeva la pelle di bue dentro, poi si lasciava scorrere di nuovo l'acqua come prima. Nessuno sapeva, nessuno poteva andare a profanare la tomba. Tutto avveniva di notte. I nostri capi sono tutti laggiù a Gura.
- Si uccidevano degli schiavi per accompagnare il sovrano morto?
- Non solo gli schiavi, ma anche la prima moglie. Se per esempio morivo io, mia moglie non rimaneva nel villaggio. Scappava lontano. Se la trovavano la uccidevano. Appena morto uccidevano subito uno schiavo, poi deponevano il mio corpo sopra il suo cadavere e mi lavavano. L'acqua usata, il cadavere dello schiavo, venivano poi raccolti e accuratamente sepolti insieme.
- Quando nel 1977 è morto Kwadio Nguettia, il capo degli Assuadiè di Koun Banua, hanno ucciso ancora un uomo per fare la toilette del cadavere?
- No, adesso non si fa più, al suo posto si uccide un cane. Sai il cane è l'animale più vicino all'uomo, è il suo sostituto.
- Kwadio Nguettia non lo hanno portato a Gura, è sepolto a Koun Banua, come mai?

Il mondo cambia

- Forse un giorno lo porteranno, ma le tradizioni di una volta oggi non si seguono più. Oggi il mondo è cambiato. Per esempio, da quando sono arrivati i bianchi non si uccidono più gli schiavi, non si uccide più la gente. Una volta si uccidevano le persone come niente. Però prima di uccidere qualcuno gli si faceva subire una prova. Il colpevole beveva una pozione avvelenata.
Se riusciva a vomitare allora era considerato innocente. Se invece non riusciva diventava come ubriaco, la testa ciondolava, così, e veniva ucciso.
- In che modo?
- Si andava laggiù, vicino al cimitero, si scavava una fossa, poi si preparava un buon pasto con pollo e salsa alle arachidi. Il condannato mangiava, faceva festa. Poi, al calar del sole, quando gli uomini ritornavano dalle piantagioni, lo si invitava ad andare laggiù. Poteva forse rifiutare? No! Arrivato vicino alla fossa, con un sol colpo, gli si mozzava la testa. Il boia aveva una medicina speciale, dufarè, la leccava, così acquistava forza. Avresti dovuto vedere! I boia erano proprio forti! Avevano le vene del collo grosse così!
- Hai visto con i tuoi occhi questo che racconti?

L'importante è capirsi e farsi capire

- No, io no, ma i miei papà e i miei nonni sì, sono loro che mi hanno raccontato tutto questo. Adesso il mondo è cambiato. Adesso non si uccide più con la scimitarra, ma con il veleno e con la bocca. Sai si può uccidere la gente in tanti modi.
- E' vero, ci sono tanti proverbi che ricordano questo. Per esempio: sonan kpo wo a / o saki wo tranbrè: L'uomo che ti odia ti calunnia e rovina il tuo nome.
- Eh, adesso parli bene il bona, citi anche proverbi!
- Nana, per favore, non prendermi in giro. Lo sai bene che la scimmia non potrà mai starnutire come l'uomo. Io non riuscirò mai a parlare bene bona come lo parlate voi. Sono come quel tronco di legno nell'acqua: diventerà pieno d'acqua, ma non si trasformerà mai in coccodrillo.
Ride di gusto e imita lo starnuto della scimmia, poi dice:
- Sì, è vero, ma intanto parli come noi, ci capisci, quando parli noi ti comprendiamo, anche se non parli bene non fa nulla, l'importante è capirsi.
Gli offro un secondo bicchierino di Whisky. Il primo è terminato da tempo.